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Torture Wars

Ieri l’onore della ribalta – nel dibattito sulla tortura che sta infuocando da giorni la scena politica statunitense – è toccato a Condoleezza Rice, Dick Cheney e John Ashcroft. Insieme a Donald Rumsfeld, si tratta delle colonne della politica di difesa (nazionale e internazionale) dell’amministrazione Bush. Ed è chiaro che, sullo sfondo delle polemiche in corso, aleggi proprio la figura dell’ex presidente, obiettivo dichiarato della sinistra americana che ha “costretto” Barack Obama a fare dietro-front sulla possibilità di processare chi autorizzò, dopo l’11 settembre 2001, tecniche d’interrogatorio come il waterboarding e il wall slamming.

Il coinvolgimento della Rice emerge dai nuovi documenti resi pubblici dalla commissione sull’intelligence del Senato che sono stati recentemente declassificati dall’attuale ministro della Giustizia, Eric Holder. Secondo queste carte, nell’estate del 2002 Condoleezza Rice (che allora ricopriva la carica di consigliere per la Sicurezza nazionale di Bush), diede il suo assenso – anche se soltanto “verbale”- all’utilizzo del waterboarding, la tecnica di annegamento simulato adottata dalla Cia durante l’interrogatorio di alcuni sospetti terroristi.

L’ex segretario di Stato diede “luce verde” all’utilizzo di questi metodi all’allora direttore della Cia, George Tenet, per l’interrogatorio di Abu Zubaydah, terrorista catturato in Pakistan nel marzo del 2002 e sottoposto al waterboarding più di 80 volte. Dai documenti risulta che anche l’allora ministro della Giustizia, John Ashcroft, partecipò insieme alla Rice (già nel maggio 2002) a un briefing su «metodi alternativi» di interrogatorio. Un anno dopo, esattamente nel luglio del 2003, a un briefing con la Cia sui «metodi duri di interrogatorio» partecipò anche il vice presidente Dick Cheney, insieme alla Rice ed Ashcroft. Al tavolo erano seduti anche Alberto Gonzales, allora consigliere della Casa Bianca e autore dei principali pareri legali sul ricorso alla tortura – e John Bellinger III, esperto del Consiglio di sicurezza nazionale.

I nuovi documenti, naturalmente, sono destinati a far crescere le pressioni per l’avvio di un’inchiesta parlamentare sull’utilizzo di tecniche di tortura da parte dell’amministrazione Bush. In prima fila, come sempre, c’è il “braccio armato” della sinistra liberal nei tribunali: l’Aclu (American Civil Liberties Union). «Non siamo di fronte a discussioni astratte, ma a conversazioni molto dettagliate e specifiche – dice Jameel Jaffer, direttore del National Security Project dell’Aclu – Ora abbiamo prove ancora maggiori del ruolo svolto dai vertici dell’amministrazione Bush».

La questione, però, rischia sempre di più di trasformarsi in una brutta “gatta da pelare”per Obama. Come ha scritto ieri il Washington Post , il presidente sperava – con la pubblicazione dei memorandum e l’assicurazione dell’immunità agli agenti della Cia – chiudere definitivamente un doloroso scontro politico che va avanti fin dai giorni immediatamente successivi agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Ricordando che la decisione era stata presa dopo un lungo e animato dibattito all’interno dell’amministrazione (e con il parere contrario dell’appena nominato direttore della Cia, Leon Panetta), il quotidiano statunitense spiega come «la sua principale preoccupazione» fosse quella di «chiudere questa storia». La sua tesi, dice uno degli uomini di Obama che vuole mantenere l’anonimato, era: «Ho vietato le torture, il capitolo è chiuso, ma ora non abbiamo bisogno di tornare indietro e rivivere tutto questo».

Nessun presidente, naturalmente, può impedire al Congresso di indagare, ma Obama sperava almeno di non essere costretto a dare il suo imprimatur a una commissione d’inchiesta sul modello di quella (contestatissima) sull’ 11 settembre. Soprattutto in un momento in cui ritiene che ma massima priorità per l’amministrazione sia quella di aiutare il Paese a uscire dalla crisi economica. Alla fine, invece, Obama si è ritrovato sotto attacco, da sinistra (da chi non ha apprezzato il suo invito a «guardare avanti»), ma soprattutto da destra.

L’ex vice presidente Dick Cheney lo accusa di aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale rivelando i metodi della Cia. E ha chiesto la declassificazione di alcuni documenti che proverebbero come l’utilizzo del waterboarding negli interrogatori di Khalid Sheik Mohammed (considerato la “mente” dietro alle stragi dell’11 settembre) abbia permesso agli Stati Uniti di sventare la “second wave” terroristica, in programma a Los Angeles. Ancora prima dell’autorizzazione, il memo a cui si riferiva Cheney (o uno sorprendentemente simile) è stato pubblicato dal quotidiano online CnsNews e ripreso dal New York Times. Secondo questo documento, prima del waterboarding Mohammed era «totalmente refrattario a collaborare », anzi minacciava gli agenti sull’imminenza di un secondo attacco. Dopo, invece, l’esponente di al Qaeda iniziò a collaborare, fornendo intelligence che avrebbe portato alla cattura di alcuni uomini-chiave del netwoek terroristico e alla cattura della cellula incaricata di replicare l’11 settembre in California.

Anche il direttore della National Intelligence di Obama, Dennis Blair, in un memorandum interno ha scritto qualche giorno fa che «i metodi utilizzati hanno fornito informazioni di altissimo valore e ci hanno dato una più profonda conoscenza degli attacchi pianificati da al Qaeda al nostro Paese». Una frase, incidentalmente, che è scomparsa dalla versione del documento fornita dall’amministrazione Obama ai mezzi d’informazione. Ieri, poi, sulle colonne del Wall Street Journal, il senatore repubblicano del Michigan, Peter Hoekstra (componente della commissione sull’intelligence), ha ricordato che molti membri del Congresso – sia repubblicani che democratici – erano a conoscenza dei metodi d’interrogatorio utilizzati dalla Cia. Invitando un’eventuale commissione d’inchiesta a indagare anche su di loro.

E la tensione cresce, minuto dopo minuto, proprio a Capitol Hill. Il leader della maggioranza al Senato, Harry Reid, ha scelto di non intervenire nel dibattito. Ma la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, non ha esitato ad appoggiare l’idea di una commissione d’inchiesta, affermando anche che ai testimoni non dovrà essere garantita alcuna immunità. La guerra è appena iniziata.

(oggi su Liberal quotidiano)

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