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Una testimonianza e una denuncia

Sono stata testimone della chiusura per ferie del reparto Cure Palliative dell’Ospedale di Udine. Ho visto i pochi letti ancora occupati (quattro al 3 luglio) liberarsi per cause naturali (decessi) o per trasferimento presso altre strutture (Rsa). Ero lì quando si sono abbassate le saracinesche, spente le luci della sin troppo lussuosa cucina, fatto definitivamente silenzio in un luogo che per sua natura annienta i rumori. Sembrava un paradosso da Hallowen l’annuncio che la “riorganizzazione programmata dei reparti ospedalieri per il periodo estivo” comprendeva anche un taglio netto a quei sei posti letto, voluti dalla gente attraverso una sottoscrizione pubblica e l’aiuto di privati buoni e volonterosi. E’ successo un po’ quel che accade quando della gente comune si mobilita per aiutare un bambino a curarsi all’estero e proprio prima dell’inizio del viaggio della speranza il bambino improvvisamente muore. Una beffa del destino, il sopravvento dell’imponderabile. Le cure palliative e il reparto che le applica non rientrano però in una partita a dadi. Non consentono vittorie o sconfitte perché appartengono all’area del mistero dove le risposte aleggiano, ma non si posano. Non avrei voluto capire, seguendo un letto con il suo macabro corredo di ossigeno e flaconi tintinnanti lungo un corridoio, che una riorganizzazione – termine fantozziano se liberato dalla sua contingente tragicità -, avesse potuto depennare per due mesi l’utilizzo dell’unico luogo deputato a familiarizzare con il tabù del fine vita: la parola morte è troppo tranchant, insopportabile per chi ritiene, sempre, di aver diritto ad almeno ancora un giorno di vita. Eppure l’OMS non è ricorso a giri di parole nel definire le cure palliative: “…forniscono il sollievo dal dolore e da altri gravi sintomi, sono garanti della vita e considerano la morte un processo naturale che non intendono affrettare né ritardare”, “…integrano gli aspetti psicologici e spirituali della cura dei pazienti e offrono un sistema di supporto per aiutare i malati a vivere nel modo più attivo possibile fino alla morte”, “…rispondono ai bisogni dei malati e delle famiglie, offrendo, qualora necessario, un intervento di supporto nella fase di elaborazione del lutto”. Poste in questi termini le cure palliative equivalgono alla speranza, parola altrettanto contraddittoria se applicata al momento della conclusione della vita. Eppure, chi approda a quel reparto (in tutte le stagioni, estate esclusa) lo fa perché è al termine di un percorso, a volte lunghissimo, di sofferenza fisica e psichica. E vede paradossalmente in quelle stanze una prospettiva di pace, di possibile assenza di dolore. E’ in questa fase di vaga ebbrezza che si abbatte la mannaia dell’economia della salute per la quale un posto letto liberato è un risparmio assicurato; e non sono esclusi vantaggi e benefits per i primari più virtuosi, quelli che… “una flebo e via”. L’Ospedale, in questa ottica, diventa un pit stop a cui segue un’ assistenza domiciliare o un parcheggio, spesso definitivo, in una cosiddetta Rsa che, per quanto riguarda Udine, equivale alla Quiete, casa di riposo sovente eterno (Eluana Englaro docet). La procedura fissata dai contabili del dolore prevede che i malati “stabilizzati” (ma non ci sono medici in grado di dire in termini incontrovertibili se un malato lo è o meno) se ne stiano a casa propria con la scorta di ossigeno e quella di morfina e, se proprio vogliono, anche con un bel letto articolato quasi identico a quello ospedaliero. Perché mai, ad esempio, non trasformare un grazioso miniappartamento di una quadrifamigliare di periferia in un efficiente e provvisorio reparto di oncologia ? I servizi sono garantiti da medici e infermieri ambulanti: una manna per chi pensa che il miglior capolinea della vita sia la propria abitazione dove nessuno verrà preventivamente a controllare se c’è un impianto di condizionamento, se ci sono i requisiti oggettivi per ospitare un malato gravissimo (bambini, anziani, donne in gravidanza, superficie calpestabile, disponibilità psicologica a farsi carico di una tragedia). E se la situazione da grave diventasse gravissima? Se cioè i parenti avvertissero, magari sbagliando, in un respiro anomalo un indizio della fine? Il ragioniere della salute ha pensato a tutto: si chiama il 118 e ci si fa ricoverare in ospedale tornando così alla casella di partenza passando, elemento che potrebbe far retrocedere drammaticamente la partita, dal pronto soccorso dove farsi assegnare il codice verde bianco o rosso. Ho visto malati, con dolori acuti e insopportabili, stazionare per ore in quel cono d’ombra che è il pronto soccorso dove la direttiva è di limitare al minimo i ricoveri. I “fortunati” che sono stati poi dirottati in un reparto hanno potuto finalmente approdare alla morfina dopo essersi intossicati con farmaci blandi, inutili e soggetti alle valutazioni ballerine dei medici di passaggio sin lì interpellati. Ho visto malati rimbrottati perché non avevano attivato l’ADI, una scoperta per loro che, pur in fase terminale, pensavano bastasse la bonomia del medico di base e qualche richiesta di consiglio telefonico al day hospital o alla introvabile guardia medica. Ho visto ammalati terminali giudicati dimissibili o trasferibili (a casa o nella Rsa) a fronte di un quadro clinico devastante di cui erano più consapevoli essi stessi dei vari medici in transito. Il reparto Cure Palliative è stato voluto, così era stato detto, per tenere accesa una luce là dove ormai ci sono solo ombre davanti alle quali la cultura occidentale ci ha insegnato solo ad aver paura. Non è un optional, quel reparto, in un territorio dove la realizzazione di un hospice è oggetto di battaglia politica per mantenere discutibili equilibri di potere. E soprattutto è un reparto che coincide drammaticamente proprio con l’hospice perché la sua funzione non è curare, ma accogliere. Tutto ciò però non basta, per gli aziendalismi della salute, a giustificarne l’apertura durante tutti i mesi dell’anno e, se viene deciso di appendere – come in qualsiasi azienda metalmeccanica –, il cartello “chiuso per ferie” le opzioni Adi e Rsa ritornano trionfalmente in campo e spacciate per privilegi anche a chi chiede, con un fil di voce, di restare lì. E a nulla vale il desiderio espresso di non salire più su un’ambulanza, o di finire in un altro posto sconosciuto o di tornare in quella casa dove si è conosciuto solo il dolore. La procedura è inequivocabile: i letti devono essere liberati, bisogna far lavorare il colosso internazionale a cui fa capo Medicasa, bisogna alimentare i posti letto della Rsa che forse, chi l’avrebbe mai detto, è l’hospice occulto e inadatto di un sistema sanitario che gioca con i dati del Potere che, dove ci sono i deboli, gli ammalati, può finalmente e tragicamente trionfare. Dal Blog Messaggero Friulano

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