Ha vinto la guerra

Negli ultimi anni soprattutto in ambito storico, si è assistito ad un vero e proprio “revisionismo reaganiano”. In particolar modo sono stati rivalutati sia i valori, che hanno da sempre contraddistinto la figura di Ronald Reagan, sia la sua abilità nel saper leggere i cambiamenti storici che si stavano verificando sul finire degli anni ottanta sia il ruolo che svolse nel porre fine alla Guerra Fredda.

Da tutto questo generale ripensamento quello che viene smentito senza possibilità di appello è la  nota corrente di pensiero che descriveva Reagan come un amiable dunce e si è rafforzato, al contrario, la tesi di chi ha sempre sostenuto l’importanza del suo ruolo attivo nel condurre le relazioni con l’Unione Sovietica.

I valori di Reagan. Against the Big Governement.

Ricostruire la vita politica di Reagan fin dai primi passi nelle fila del partito Democratico non è un’operazione fine a se stessa ma ci serve per capire meglio quali siano stati i fattori costitutivi della peculiare visione politco-economica del futuro presidente americano. Il punto principale da cui partire non può che essere l’avversione per il “big government” che sarà la base sulla quale si formerà lo spiccato anticomunismo reaganiano e che, grazie ai Tea Party, in questi anni sta riacquistando un’importanza centrale nel dibattito politico statunitense.

È interessante notare come i due capisaldi della sua futura politica presidenziale non nascano in Reagan da un’ideologia preconcetta ma siano dettati semplicemente dal suo relazionarsi con la realtà politica ed economica del tempo.

«A neoconservative is a liberal who has been mugged by reality», questa definizione di Irving Kristol, riesce più di tanti discorsi a caratterizzare in modo molto chiaro il pensiero di Reagan dopo le sue iniziali frequentazioni nell’Hollywood Democratic Committee che lo portarono all’amara constatazione che il Welfare State esistente all’epoca gli avrebbe permesso di guadagnare molto di più se fosse stato senza lavoro.

Accorgendosi quindi di una stretta relazione tra una certa élite liberal, che non cercava di nascondere una simpatia per il modello di sviluppo dell’Unione Sovietica, l’aumento della spesa pubblica per sostenere le riforme della Great Society, e il declino morale-ideologico che stava vivendo l’America, Reagan organizzò la sua idea di nazione in opposizione a questi concetti.

La grandezza dell’America, secondo la nuova interpretazione reaganiana, era data dalla peculiare commistione di solidarietà ed intraprendenza personale. Presi da soli questi due termini avrebbero avuto una forte valenza negativa ma uniti insieme erano invece la ricetta del successo americano. Il distruttore dei valori individuali era quindi un forte governo federale che al pari della monarchia britannica del 1776 non era un elemento che apparteneva al DNA americano. “Did we forget that the function of government is not to confer happiness on us, but to give us the opportunity to work out happiness for ourselves?”

Praticamente Reagan con questo apparentemente semplice appello a restituire il potere alle persone facendo fuori il governo federale, si riappropriava di uno dei capisaldi della rivoluzione americana riuscendo così a capitalizzare il dissenso antigovernativo che lo scandalo Watergate e la guerra in Vietnam avevano creato e che, incredibilmente, Carter non aveva saputo capitalizzare nonostante fosse stato il principale cavallo di battaglia con il quale era riuscito a vincere le elezioni del 1976.

Altra colpa di Carter era quella di non aver saputo dare una risposta forte e convincente ai malesseri che il paese stava vivendo; dato che con il suo Malaise Speech sembrava attribuire agli stessi americani la responsabilità dei problemi che si trovavano ad affrontare.

Non stupisce quindi come Reagan abbia saputo trarre successo da questo ritorno ai valori comuni del popolo americano: «we want our national policy based on what we know in our heart is morally right».

Comunismo, distensione e soluzioni

Questa piccola parentesi sull’ideologia economico-governativa di Reagan ha un ruolo essenziale per farci capire come il passo per arrivare ad uno spinto e viscerale anticomunismo possa essere breve.  La dottrina socialista, agli occhi di Reagan, era infatti solo una Great Society portata alle estreme conseguenze.

Tralasciando i giudizi su come l’ideologia economica di sfrenata deregulation abbia o non abbia realmente funzionato in campo economico è interessante vedere come quest’attenzione rivolta alla riscoperta dei valori fondanti dell’America sia traslata in politica estera.

Il motore principale delle decisioni di Reagan in politica estera furono infatti le sue convinzioni morali prima di qualsiasi calcolo politico ed economico.

In questo frangente il grande nemico da combattere diventa quindi la distensione kissingeriana che era ritenuta basarsi su una immoralità di fondo: ovvero perseguire soltanto una logica di stabilità mondiale sacrificando ad essa valori come la potenza, il prestigio e tutti gli altri principi che avevano reso grande l’America.

Secondo la visione conservatrice e neoconservatrice due esempi su tutti del fallimento sia morale che politico della distensione si rivelarono essere: la caduta di Saigon, che rese evidente come il sacrificio di migliaia di americani fosse stato gestito male tanto da renderlo inutile, e l’affare Solzhenitsyn. Quest’ultimo caso provocò grandi imbarazzi nell’amministrazione Ford e spinse Reagan a criticare apertamente l’operato del presidente incapace, a suo avviso, di rendere il giusto omaggio ad un eroe russo che aveva coraggiosamente resistito alla persecuzione sovietica.

A fare da sfondo a questa marcata avversione verso l’Unione Sovietica e il modello di sviluppo che essa rappresentava c’era la convinzione altrettanto ferrea, espressa in modo molto chiaro e netto nel discorso al parlamento britannico nel 1982, che in realtà il comunismo fosse soltanto una “grande bugia” e in quanto tale non potesse durare per sempre ma stesse per arrivare alla sua “morte naturale”.

È opportuno tenere ben presente questi fattori per riuscire ad avere un quadro più completo delle risposte che furono approntate per risolvere le varie crisi internazionali che si presentarono durante i due mandati della presidenza Reagan.

Riarmo e scudo spaziale

lo scopo principale del riarmo portato avanti da Reagan fu quello di voler difendere più efficacemente possibile il popolo americano piuttosto che quello di voler sfiancare economicamente l’Unione Sovietica spingendola ad una rincorsa che l’avrebbe vista sconfitta in partenza.

Sotto questa ottica, con lo scopo di utilizzare appieno i vantaggi tecnologici che gli Stati Uniti disponevano, nasceva l’idea dello scudo spaziale (SDI) la cui funzione sarebbe stata quella di essere usato unicamente come strumento di difesa e non come una pedina di scambio per ottenere concessioni da parte dei Sovietici.

A sostegno di questa tesi sono molto rivelatrici sia le dichiarazioni del tenente generale Edward L. Rowny: «I was present at many, if not most, of the discussions on [SDI]. As the archives are opened, I would be greatly surprised if you find any serious talk about [outspending the Soviet] at all». Sia le parole di di Robert McFarlane, ex consigliere della sicurezza nazionale, il quale afferma con sicurezza che «in trying to correct a perceived strategic imbalance, the United States wanted to reduce its long-term costs by turning to its comparative advantage in technology rather than try and match the Soviet Union “tank for tank and ship for ship”».

L’importanza centrale del progetto SDI era tale data anche la paura, sempre presente in Reagan, di un olocausto nucleare.

Il balzo concettuale e strategico che avvenne negli anni della sua presidenza si può comprendere appieno solo tenendo ben presente il momento in cui fu chiaro che che nessun vincitore sarebbe potuto emergere da un conflitto nucleare.

Anche la distensione era partita da questa considerazione ed era stata adottata come l’unica soluzione possibile al pericolo di una distruzione reciproca ma adesso si cambiavano radicalmente i termini della questione; ovvero non ci poteva essere una sicurezza e una pace duratura finché non fosse eliminato del tutto il pericolo di un olocausto nucleare.

Tenendo presenti questi fattori è quindi comprensibile l’ostinazione di Reagan nel non voler in nessun modo rinunciare al progetto SDI nonostante avesse più volte corso il rischio, con questo suo atteggiamento, di compromettere le relazioni con i sovietici.

Il pragmatismo reganiano e l’opposizione repubblicana

A questo punto entra in gioco un altro aspetto importante della personalità di Reagan ovvero il suo pragmatismo qualità sviluppata fin dagli anni in cui fu governatore della California.

Se fino a questo momento abbiamo tratteggiato la figura di un Reagan fermamente ancorato ai valori in cui crede, e disposto a tutto per perseguirli, non possiamo fermarci solo a questo ma dobbiamo prendere atto della sua abilità nel riuscire ad usare a proprio favore le armi della diplomazia. Questa si rivelerà essere una qualità molto importante nel momento di trattare sia con un congresso a maggioranza democratica, sia con i Sovietici e in particolare con Gorbachev, che renderà Reagan capace di fare un passo indietro in un mondo in cui i ruoli sembravano dovessero essere perennemente polarizzati.

Se da una parte è vero che Gorbachev e la sua perestroika hanno in gran parte il merito di aver avviato unilateralmente il disarmo, e quindi di aver favorito l’inizio di un nuovo percorso, è utile sottolineare che Reagan si trovò a dover combattere contro la maggioranza del suo stesso partito che continuava a leggere le riforme di Gorgachev in una “vecchia” ottica da Guerra Fredda.

Illuminanti sono in questo caso le aspre critiche che vengono sollevate dagli ambienti culturali della destra americana: «Early in the 1986 a report by Heritage Foundation described Gorbachev as a deceptive, brutal Stalinist who had brought “no essential change in the Soviet political scene”. National Review argued that Gorbachev’s foreign policies were mere posturing and assailed as a “vintage Stalin” his consolidation of power in order to make domestic economic reforms».

L’opposizione politica con la quale Reagan si scontrò si può dividere sostanzialmente in due gruppi.

Il primo era formato dagli stessi opinionisti conservatori che avevano appoggiato Reagan nella sua scalata alla Casa Bianca; le critiche più dure al suo operato vennero infatti dalle colonne della National Review e dagli editoriali di George Will. Quello che, da un certo punto in poi, cominciò a far temere questo gruppo di conservatori fu che le posizioni di Reagan sugli armamenti nucleari stavano diventando troppo vicine a quelle degli ambienti pacifisti.

Questo stesso giudizio sulla pericolosità delle idee di Reagan sugli armamenti nucleari, venne condiviso anche da Kissinger e da larga parte del gruppo Repubblicano al Senato che formò l’Anti-Appeasement Alliance per bloccare l’approvazione del INF Treaty e, in questo clima, c’è chi non risparmiò di rivolgere parole molto pesanti nei confronti del Presidente americano che venne definito da «a useful idiot for Soviet propaganda».

Ma la profonda avversione di Reagan verso le armi nucleari, allo stesso modo della sua volontà di dialogare con l’Unione Sovietica, non poteva essere definita un elemento imprevedibile della politica presidenziale perché già dal 1976  in un discorso alla Convention Repubblicana, il futuro presidente degli Stati Uniti aveva espresso molto chiaramente le sue idee al riguardo.

Il secondo gruppo che si oppose con forza alla politica estera di Reagan può essere definito quello dei realisti, ovvero i rappresentati della vecchia scuola di politica estera attiva durante gli anni precedenti; gli esponenti principali di questo gruppo furono infatti Nixon e Kissinger. È curioso notare come coloro che a loro volta, furono criticati duramente dai conservatori per la loro politica di distensione con l’Unione Sovietica, in questo periodo si trovarono fianco a fianco a quest’ultimi nell’opporsi ai progetti di diminuzione degli armamenti nucleari.

È utile a questo punto sottolineare che la diffidenza di Nixon nei confronti di Reagan parte da una diversa concezione dell’anticomunismo.

Per Nixon la politica è sempre venuta prima rispetto all’opposizione al comunismo che era relegata solo alla sfera della politica estera e alle questioni strettamente geopolitiche. Raramente infatti si era esposto in prima persona sostenendo la necessità di un cambiamento del sistema sovietico, il quale, anche se sgradevole, era semplicemente accettato come una condizione permanente e immutabile della storia.

Reagan, invece, era di tutt’altro avviso: nella sua storia personale l’anticomunismo e l’opposizione all’Unione Sovietica non solo venivano prima della politica ma addirittura ne erano il fondamento.

Fu per via del suo anticomunismo infatti che decise di abbandonare il Partito Democratico di cui, in gioventù, era stato un convinto sostenitore per entrare nelle fila del Partito Repubblicano.

In altre parole quindi per Reagan la critica all’ideologia comunista non si poteva relegare soltanto alla politica estera ma entrava a far parte della sua concezione dell’etica e della morale e, soprattutto, non poteva essere scontato il fatto che l’Unione Sovietica dovesse esistere per sempre.

Il giudizio sia di Kissinger che di Nixon invece sarà molto simile per tutta la durata della presidenza di Reagan e verterà sempre su un punto ben preciso, ovvero che Gorbachev non è un leader diverso dagli tutti altri che si sono succeduti nel tempo alla guida dell’Unione Sovietica e, per questo, non ci si potrà mai fidare fino in fondo perché, come gli altri, il suo unico scopo sarà sempre quello di perseguire la vittoria finale del socialismo.

Non basterà a Nixon neanche incontrare di persona Gorbachev per fargli cambiare idea, infatti nel 1986 dopo una visita al Cremlino scriverà queste parole a Reagan stesso per metterlo nuovamente in guardia dei pericoli che stava correndo:

«Gorbachev is the third General Secretary of the U.S.S.R. that I have meet. He is without question the ablest. […] But beyond the velvet glove he always wears, there is a steel fist … In essence, he is the most affable of all the Soviet leaders I have meet, but at the same time without question the most formidable because his goals are the same as theirs and he will be more effective in attempting to achieve them».

Anche il giudizio di Kissinger, che come detto non si discosterà in modo sostanziale da quello dell’ex presidente, mantenne sempre come assunto principale il fatto che la divisione bipolare era una condizione immodificabile nelle relazioni internazionali.

«There are no final “happy endings” […] The United States and the Soviet Union will remain superpowers impinging globally on each other. Ideological hostility will continue. Specific, precise arrangements can, indeed must be made. But they are more likely to ameliorate tension than to end them».

Con questi due esempi si capisce la portata della novità che fu introdotta dal rapporto personale tra Reagan e Gorbachev; due leader politici che ebbero bisogno l’uno dell’altro per portare avanti le loro rispettive idee su una cooperazione che, come risultato ultimo, non avesse solo il congelamento dello status quo ma che potesse portare alla fine della deterrenza nucleare e della stessa filosofia alla base della Guerra Fredda.

Si rende quindi evidente un punto molto importante ovvero come la capacità di Reagan nel giudicare gli obbiettivi e le reali intenzioni di Gorbachev sia derivata soprattutto da un genuino rapporto personale tra i due, che ha tagliato fuori le rispettive ideologie di parte e le opinioni che quaranta anni di Guerra Fredda avevano contribuito a cementare nelle due società.

Ruolo di Reagan nella fine della Guerra Fredda

Cercando di tirare le somme dell’azione di Reagan in politica estera ci si trova di fronte a molte difficoltà dettate innanzitutto dalla varietà di approcci che si verificarono lungo gli otto anni della sua presidenza.

Da una parte non possiamo tirarci indietro criticando in modo netto e deciso gli insuccessi in Medio Oriente e in America Centrale che possiamo definire senza mezzi termini un bagno di sangue.

In questo caso, comunque, un nodo che non si riesce ancora a sciogliere riguarda il peso che Reagan può avere avuto nel sostenere simili operazioni e quanto invece possano essere state decisive l’eccesso di intraprendenza e le valutazioni errate di consiglieri “falchi” come Poindexter e North.

Per quanto riguarda però il ruolo di Reagan nella fine della Guerra Fredda uno storico come Wilentz (convinto democratico e sostenitore di Hillary Clinton alle scorse primarie) non lascia spazio a dubbi sostenendo il merito di Reagan che da solo riuscì ad intravedere e a seguire la strada che si era aperta con l’avvento di Gorbachev: «Call it a triumph of character or idealism or perceptiveness or “wishful thinking”, or some combination of these. But Reagan ability to dispense with dogma (incliding his own) and negotiate with Gorbachev helped bring an end to a nuclear arms race that had terrified the world for forty years».

Su questo punto Wilentz è quindi molto chiaro arrivando persino ad affermare che Reagan si merita l’onore dei posteri per la sua capacità di aver capito quando trascendere e rigettare le idee controproducenti riguardo agli armamenti nucleari e l’Unione Sovietica riuscendo così ad ottenere «the gratest single presidential achievement since 1945».

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