Una ferita nell’anima

Ogni undici settembre è la stessa storia. Chi viene su un sito come questo si aspetta di trovare certamente un ricordo, magari un’analisi, due righe di commento su come sono stati questi dieci anni, su cosa è cambiato. Impossibile. Ragionare e applicare categorie razionali all’undici settembre è un’impresa fuori dalla nostra portata. Si riapre, puntualmente, quella ferita mai rimarginata del tutto, quel senso di impotenza e quelle certezze che crollano, quei sogni infranti alla velocità, lenta e inarrestabile, di due aerei che abbattono due torri.

Questo articolo ha avuto almeno tre attacchi diversi. Tutti cestinati, in una gigantesca sindrome da foglio bianco che ogni undici settembre ci attanaglia e ci riconsegna lo sguardo perso nel vuoto di quel primo pomeriggio, quando l’America si è svegliata guardando negli occhi il suo incubo peggiore. Ma perché, quindi, forzare sé stessi e i propri sentimenti per provare quantomeno a buttare giù due righe? Perché rischiare di apparire banali o scontati quando tutto quello che si cerca è un ricordo sincero e non strumentale? La risposta l’ha data Oriana Fallaci con una delle sue frasi migliori: “Vi sono momenti, nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre”.

E così, nell’Europa assuefatta al politicamente corretto e in quest’Italia troppo impegnata a discutere delle bassezze della sua classe dirigente, ci ritroviamo con uno dei principali settimanali italiani, quell’Espresso patria e rifugio della sinistra resistente pronta a governare, che per celebrare i dieci anni dal crollo delle Twin Towers sceglie di regalare ai suoi lettori un dvd che spiega perché un attentato, a New York, non c’è mai stato. Ologrammi, forse la Cia, certamente Bush: ma niente aerei dirottati, pochi morti (degli ebrei che non vanno a lavorare quel giorno, vogliamo parlarne?), demolizione controllata delle torri e un set cinematografico degno di James Cameron.  E’ per questo motivo e per questi signori che abbiamo il dovere di ricordare, anche a costo di risentire quel dolore, di riprovare quel senso di sconforto.

Non c’è dubbio che l’amore sterminato per gli Stati Uniti ci faccia percepire questa tragedia in modo particolare. E non c’è dubbio che i sentimenti contrastanti che l’America suscita facciano diventare questa giornata un momento, uno dei tanti, in cui diventa naturale interrogarsi sul senso profondo di quella bandiera a stelle e strisce. Con la stessa naturalezza con cui Giulietto Chiesa violenta la verità dei fatti e insulta migliaia di morti innocenti sull’altare dell’estremismo islamista, noi dobbiamo ribadire oggi, a costo di apparire naif, tutto quello che gli Stati Uniti hanno rappresentato, rappresentano e rappresenteranno per noi. Una terra di opportunità e libertà, sogni realizzati e occhi pieni di speranza. Un paese con contraddizioni pari solo alla sua capacità di accogliere e declinare meglio di chiunque altro il concetto di democrazia, di uguaglianza, di possibilità di riuscire anche dopo aver fallito. Valori radicalmente contrari al mondo immaginato dai pasdaran islamici e dai loro fiancheggiatori ideologici europei, quelli dell’uguaglianza in punta di sacre scritture e quelli dell’uguaglianza imposta per legge. In un gioco di specchi sul filo del paradossale si sono spesso ritrovati fianco a fianco a combattere la loro battaglia contro il sogno americano.

Troppo poco. Perché il sogno americano non finisce con due torri tirate giù né si indebolisce per qualche documentario pieno di tesi strampalate e di scientifiche omissioni. Ogni volta che ci hanno provato, da Pearl Harbor all’undici settembre, si sono ritrovati davanti una nazione che non è stata mai una fredda somma di popolazioni diverse, quanto più un luogo dell’anima capace di affascinare uomini e donne di etnie, religioni e tendenze politiche diverse.

Ai complottisti e agli anti-americani di professione non abbiamo nessuna voglia di rispondere, regalando loro una legittimazione che non hanno. A tutti quelli che, ieri, oggi, domani, sono passati di qui per sentire cosa avevamo da dire sull’undici settembre, possiamo assicurare che non dimenticheremo mai così come non rinunceremo mai a riconoscere in quella bandiera un simbolo universale di libertà e democrazia. Le ferite, alla lunga, si rimarginano e lasciano solo qualche fastidiosa cicatrice. Quando però il dolore è più profondo, diventa difficile porvi rimedio. Le ferite dell’anima e le loro cicatrici non si possono cancellare e non si possono dimenticare senza correre il rischio di rinunciare alla propria libertà e ai propri sogni. I nostri, ancora per molto, saranno a stelle e strisce.

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