AAA AntiObama Cercasi

Una versione leggermente ridotta di questo articolo è stata pubblicata su “Il Foglio” di oggi. Le percentuali della media RCP sono state aggiornate con i dati più recenti.

Regola numero uno: dimenticatevi delle primarie 2008. Diversi gli interpreti, diversi gli scenari di fondo, diverso il “nemico”, diversa la collocazione temporale delle sfide, diversi i gruppi organizzati che influenzeranno l’esito del voto. Queste novità – alcune assolute – hanno a lungo prodotto una miscela esplosiva di incertezza che soltanto la “discesa in campo” del governatore del Texas, Rick Perry, sembrava aver stabilizzato. Ma che gli ultimi dibattiti televisivi hanno fatto ripiombare nel caos. Prima di occuparci dei candidati, però, è opportuno spendere qualche parola per chi poteva esserci ma ha preferito rinunciare.

GLI ASSENTI

Per i simpatizzanti repubblicani che non sono soddisfatti fino in fondo dal parterre dei partecipanti, scorrere l’elenco degli “assenti” è come ricevere una pugnalata al cuore. A volte le potenziali candidature erano soltanto frutto di invenzioni giornalistiche senza fondamento, come per Scott Brown, il freshman del Massachusetts che nel 2009 ha dato il via alla riscossa elettorale repubblicana togliendo ai democratici la supermajority al Senato. O come nel caso dell’ex governatore della Florida, Jeb Bush (il “Bush intelligente”, sussurrano i maligni). Altre volte, invece, si trattava di ipotesi più serie, come per il governatore del Mississippi, Haley Barbour, quello della Louisiana, Bobby Jindal (che appoggia Perry), o per il senatore della South Carolina, Jim DeMint, molto apprezzati dalla base conservatrice.

Suggestive, ma mai realmente concrete, le voci che riguardavano uno dei due governatori neo-eletti che, sempre nel 2009, avevano anticipato la vittoria del GOP alle elezioni di mid-term: Bob McDonnell in Virginia. Mezze annunciate, ma ritirate in fretta, le possibili candidature dell’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite, John Bolton, del governatore dell’Indiana, Mitch Daniels, e dell’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, già in corsa nel 2008. Scoppiettante ma breve è stato il tentativo del miliardario (e star della reality-tv) Donald Trump, che prima dell’estate era anche posizionato bene nei sondaggi nazionali ma che ha visto il suo sogno tramontare insieme alle polemiche sul certificato di nascita di Obama.

Un discorso a parte, infine, lo meritano due “emergenti” del GOP, come il deputato del Wisconsin, Paul Ryan, e il senatore della Florida, Marco Rubio, che vengono considerati – sia dalla base che dall’establishment – come due delle migliori speranze del partito per il futuro. Ed è probabilmente un bene che entrambi abbiano evitato di “bruciarsi” in quella che, in ogni caso, si annuncia come una tornata elettorale molto combattuta.

Assente, ma soltanto dopo la batosta subita all’Ames Straw Poll organizzato in Iowa lo scorso 13 agosto, l’ex governatore del Minnesota, Tim Pawlenty, che era partito con il piglio giusto e con un team di collaboratori di altissimo livello, ma la cui candidatura non è mai realmente decollata. Conservatore moderato (ma neppure troppo) del Midwest, Pawlenty secondo gli analisti avrebbe avuto ottime chance contro Obama, ma il suo stile misurato non è mai emerso con convinzione in un contesto politico “urlato” ai limiti della bagarre. Dopo il ritiro, è arrivato l’endorsement per Romney.

INCERTI FINO ALLA FINE

Con la definitiva rinuncia di Rudolph Giuliani, si è finalmente concluso il minuetto mediatico che ha coinvolto – fino all’ultimo momento utile – tre nomi “pesanti” che potevano avere un qualche impatto sulla dinamica della corsa. Dell’ex sindaco di New York si era tornato a parlare molto in occasione del decimo anniversario delle stragi dell’11 settembre. Nel 2008 Giuliani è stato a lungo il front-runner repubblicano, ma la sua campagna elettorale si è conclusa presto, e bruscamente, grazie soprattutto ad una strategia disastrosa (saltare a pie’ pari Iowa, New Hampshire e South Carolina) e concentrare ogni sforzo sulla Florida. Dopo il mezzo flop nel Sunshine State (Rudy è arrivato solo terzo), la strategia è saltata completamente e il Mayor of America si è ritirato per appoggiare John McCain. In questo ciclo di primarie, Giuliani non aveva mai escluso categoricamente la possibilità di candidarsi. Fino a ieri. Adesso molti analisti sono convinti che finirà per appoggiare il suo grande amico Rick Perry che nel 2008 – nonostante alcune evidenti dissonanze ideologiche – si era schierato dalla sua parte.

Il secondo nome circolato a lungo, naturalmente, è stato quello dell’ex governatore dell’Alaska, Sarah Palin. La Palin, che è un personaggio complesso e molto distante da quello dipinto a tinte fosche dai media liberal americani e da tutta la stampa italiana, può godere su uno “zoccolo duro” di sostenitori che non è vastissimo ma che è sempre stato molto motivato e fedele alle indicazioni del suo leader. Prima della rinuncia, la sua forza stava lentamente svanendo nei sondaggi nazionali. Ma questo non toglie che il suo endorsement potrebbe dare a chiunque una spinta decisiva per primarie (ma forse avere un effetto negativo nella sfida contro Obama, vista la sua impopolarità tra democratici e indipendenti).

L’ultima citazione la merita il voluminoso Chris Christie, che ha accarezzato a lungo l’ipotesi di correre. Coccolato da pundits ed intellettuali e apprezzato per il suo stile ruvido ma con aperture bipartisan, Christie – eletto governatore nel 2009 in New Jersey sfatando una lunga tradizione negativa del GOP – avrebbe in realtà trovato molti avversari nella base conservatrice del partito, a causa di alcune sue posizioni poco ortodosse sui temi cari alla destra religiosa. Il suo endorsement andrà con ogni probabilità a Romney. [UPDATE. L’endorsement è arrivato proprio oggi].

I CANDIDATI

Mitt Romney. L’ex governatore del Massachusetts è stato, fino ad agosto, il front-runner incontrastato. 64 anni, reduce dal “secondo posto” alle primarie del 2008, l’uomo che nel 2002 ha salvato dal disastro economico le olimpiadi invernali di Salt Lake City, ha finora condotto una campagna moderatamente efficace. Pro: l’esperienza (governo e affari); ottime capacità di fundraising; un buon team elettorale; è un ottimo debater; piace all’establishment del GOP (National Review in testa); almeno in teoria è il candidato più forte contro Obama. Contro: è un mormone (in un partito ancora molto influenzato dagli evangelici); la sua riforma sanitaria in Massachusetts è simile a quella voluta da Obama (che gli americani, soprattutto i repubblicani, odiano); è un flip-flopper capace di cambiare idea con (troppa) disinvoltura.

Rick Perry. Governatore del Texas dal dicembre del 2000 (è il governatore americano da più tempo in carica), metodista, 61 anni, ex conservative democrat e straight-shooter per eccellenza. Lo paragonano a George W. Bush, ma mentre l’ex presidente era un texano di “sangue blu” importato, Perry viene dal Texas profondo: Yale contro A&M. Pro: il mercato del lavoro nel Lone Star State è in condizioni eccellenti e si tratta di uno degli argomenti-chiave della prossima campagna elettorale; non ha mai perso un’elezione; lunga esperienza di governo; fundraising stellare, non dispiace ai Tea Party (anche se la sua posizione “moderata” sull’immigrazione è rischiosa). Contro: il suo linguaggio diretto e il suo atteggiamento potrebbero intimidire moderati e indipendenti (irrilevante alle primarie); i media tradizionali non lo sopportano (irrilevante alle primarie); a volte sembra un po’ impreparato e svogliato; negli ultimi dibattiti è andato malissimo; dieci anni di governo rendono difficile essere un avversario a tutto tondo del big government.

Herman Cain. Unico afroamericano del gruppo, 65 anni, miliardario, battista, vicino ai Tea Party, Herman Cain è totalmente estraneo all’establishment repubblicano classico. Ex amministratore delegato di Godfather’s Pizza (“A pizza you can’t refuse!”) dopo essersi fatto le ossa a Burger King e alla Federal Reserve di Kansas City, Cain adesso si diverte a fare politica (oltre che a scriverne). E la cosa gli riesce meglio di quanto non si dica in giro. Pro: oratore molto brillante; ex businessman in un periodo dove l’economia conta molto; piace abbastanza al movimento Tea Party; ha vinto a sorpresa (e con largo margine) lo straw poll della Florida; è in fortissima crescita nei sondaggi. Contro: non sempre riesce a trasformare le sue intuizioni in strategia politica; per essere un outsider, non è ancora riuscito a mettere in piedi un’organizzazione grassroot degna di questo nome (ma ha ancora tempo).

Newt Gingrich. Ex Speaker repubblicano della Camera e deputato della Georgia, Gingrich è l’uomo del Contract with America, con cui nel 1994 i repubblicani hanno interrotto decenni di dominio incontrastato dei democratici al Congresso. Caduto in disgrazia negli anni successivi, Gingrich ha continuato ad attrarre nuove generazioni di attivisti. 68 anni, cattolico, nei primi sondaggi di questo ciclo elettorale è partito dietro Mitt Romney e Sarah Palin, ma è lentamente scivolato in basso dopo una serie apparentemente infinita di piccoli errori tattici. Ultimamente ha scelto una linea molto morbida nei confronti degli altri candidati repubblicani e molto dura nei confronti dei mainstream media. Pro: considerato un big thinker, è sicuramente il più preparato e intelligente dei candidati GOP; ottimo organizzatore grassroot; i democratici lo odiano. Contro: una vita personale molto complicata; apparenti problemi organizzativi e di fundraising (gli ex collaboratori danno la colpa all’ultima moglie Callista); i democratici lo odiano.

Ron Paul. Congressman del Texas, 75 anni, battista, libertarian duro e puro ai confini del paleoconservatorismo, il Dottor Paul è adorato dai giovani e ha un esercito di fedelissimi cyber-attivisti. Completamente esterno al repubblicanesimo mainstream recente per le sue posizioni “isolazioniste” in politica estera, ma precursore dell’ondata neo-liberista che spinge il GOP da qualche anno, Ron Paul è il candidato più “improbabile” delle primarie ma anche quello che riesce a strappare più indipendenti a Obama. E’ stato la sorpresa del 2008, potrebbe esserlo anche nel 2012.  Pro: capacità di raccolta fondi online superiore a chiunque altro; solida base di sostenitori; non cambia mai idea. Contro: le sue posizioni in politica estera sono in larga minoranza nel GOP moderno; non sembra in grado di allargare la sua base di sostenitori (alcuni dei quali sono, francamente, inquietanti); non cambia mai idea.

Michele Bachmann. Congresswoman del Minnesota ma nata in Iowa, 55 anni, fondatrice del Tea Party Caucus alla Camera, luterana, prima donna repubblicana eletta nel suo stato, la Bachmann ha parzialmente sostituito Sarah Palin nell’immaginario collettivo anti-repubblicano. E questo ha portato ad una campagna di stampa negativa nei suoi confronti che è sembrata fuori luogo anche ad una parte dei commentatori liberal. Pro: in assenza di Sarah Palin, ha il sostegno di vasti settori del movimento Tea Party; le sue origini del Midwest possono favorirla in Iowa; buon fundraising. Contro: è di per sé una figura molto polarizzante, ma le esagerazioni dei media hanno reso questo difetto quasi caricaturale; viene dal Congresso (e in genere alla Casa Bianca ci finiscono i governatori);  è in netto calo nei sondaggi.

Rick Santorum. Ex senatore della Pennsylvania (ma nato in Virginia), 53 anni, cattolico, fiscal e social conservative, è un rappresentante classico della cosiddetta “destra religiosa” che raramente viene preso sul serio ma che negli anni si è fatto una fama di combattente. Il suo bacino di riferimento non è vastissimo ma molto compatto e motivato. Non ha grandi speranze di vittoria, ma in una corsa serrata il suo endorsement può valere parecchio. Pro: piace sia ai cattolici che agli evangelici; non molla mai la presa; è in grado di emergere nei dibattiti. Contro: il tema dei “valori” è un po’ in ombra in una campagna elettorale dominata dall’economia; su alcuni temi ha posizioni non mainstream; la sua ultima campagna elettorale (per il Senato nel 2006) è stata disastrosa.

Jon Huntsman. Ex governatore dello Utah ed ex ambasciatore statunitense in Cina (nominato da Obama), 51 anni, mormone e indubbiamente RINO (Republican in name only), Huntsman è considerato il migliore candidato del GOP da tutti gli analisti e i commentatori che vorrebbero mettere fuorilegge il GOP. Descritto come l’unico “sano di mente” tra i partecipanti alle primarie, in realtà è una sorta di moderato democratico californiano (non a caso è nato a Palo Alto) costretto a trasformarsi in repubblicano per fare politica nello Utah. Con tutta la pubblicità gratuita che gli hanno fatto i mainstream media dovrebbe essere ormai stabilmente nel gruppo di testa, invece viaggia intorno allo “zero virgola”. Non ha nessuna chance di vittoria, neppure se fosse l’unico superstite dopo un incidente aereo. Pro: i media lo adorano. Contro: i media lo adorano.

I SONDAGGI

A qualche mese dall’inizio reale della stagione delle primarie repubblicane (i caucus dell’Iowa sono previsti per il 6 febbraio 2012), i sondaggi condotti a livello nazionale hanno ancora un grado di attendibilità molto scarso. Ma possono aiutarci ad individuare qualche linea di tendenza. In un sondaggio condotto da Opinion Research per CNN all’inizio del 2010, il candidato preferito dai repubblicani era Huckabee (21%), seguito a breve distanza da Palin (19%) e Romney (18%). Mentre Gingrich (10%) e Paul (7%) guidavano l’affollatissimo gruppetto degli inseguitori, tra cui spiccavano i nomi di Daniels (3%), Pawlenty (3%) e Santorum (1%).

Fast-forward a oggi. Nell’ultima media Real Clear Politics (che tiene conto degli ultimi sondaggi effettuati), in testa alla classifica c’è Romney (21,7%), seguito da Cain (16,3%) e Perry in forte calo (14,7%). Dietro a loro, Paul (8,0%) e Gingrich (7,2%) hanno distanziato la Bachmann (4,8%), in caduta libera. Chiudono, molto staccati, Santorum (2,3%) e Huntsman (1,2%). Si tratta di uno scenario molto diverso da quello di 21 mesi fa, con una sola, inquietante (soprattutto per lui), costante: Romney. Nel gennaio 2010 era leggermente al di sotto del 20%. Adesso è leggermente al di sopra.

Romney resta in prima fila, ma deve ormai dividere questo onore (e onere) con Cain e Perry. Il secondo ha iniziato a dare segni di vita già a giugno (prima di candidarsi ufficialmente). Poi, dopo agosto, ha quasi triplicato le sue performance nei sondaggi (a metà settembre era arrivato anche vicino al 32%), ma i suoi numeri sono stati devastati dalle ultime, mediocri, performance televisive.

Un altro candidato dal passo sostenuto e tutto sommato stabile è Ron Paul, che raramente riesce a mettere il naso oltre il 10%, ma che altrettanto raramente scende sotto al 6-7% dei consensi. Molto instabili, invece, sono i percorsi di Cain e della Bachmann. Il primo viaggiava intorno al 3% fino al maggio di quest’anno. Poi, grazie a un paio di apparizioni televisive, è diventato il “flavor of the month” e l’improvvisa attenzione dei media lo ha portato a superare la barriera del 10% fino all’inizio di luglio, quando l’attenzione è svanita rapidamente come era arrivata, dimezzando i suoi consensi. Dopo la vittoria inaspettata allo straw poll della Florida, Cain ha superato di slancio i suoi massimi storici, fino addirittura ad insidiare Romney negli ultimi sondaggi. Luglio, invece, è stato il mese in cui i media hanno concentrato la loro attenzione (quasi mai benevola) nei confronti della Bachmann che, stabile appena al di sotto del 5% fino alla metà di giugno, era schizzata al 14% nel giro di un mese, per poi tornare sotto al 5% di oggi, malgrado la vittoria all’Ames Straw Poll di agosto.

A lungo in discesa, invece, i numeri di Newt Gingrich. L’ex Speaker viaggiava quasi sempre in doppia cifra nel 2010, poi ha avuto una leggera flessione all’inizio dell’anno. E nella primavera di quest’anno, contemporaneamente alla crescita di Cain e della Bachmann, Newt è affondato fino al 5% scarso. Da quel momento, pur senza peggiorare ulteriormente, la sua performance non è più riuscita a decollare. Fino alle scorse settimane, quando si è registrata una netta inversione di tendenza che lo ha riportato spesso a sfiorare la doppia cifra.

Stabile, più o meno, anche Santorum, che ha viaggiato a lungo intorno all’1-2%, per poi sfoderare un paio di risultati intorno al 6% a metà giugno. Ma si trattava di un fuoco di paglia d’inizio estate, perché l’ex senatore è quasi subito tornato nelle retrovie. Piatto, come un encefalogramma piatto, anche l’andamento di Huntsman, partito intorno all’1% e immobile a quel livello, senza alcuna speranza di sfuggire alla morte cerebrale.

DENTRO I SONDAGGI

Scavando dentro i sondaggi senza limitarsi ai dati finali, però, spesso si scopre una realtà più complicata di quello che appare. Limitandoci per esempio ad una delle rilevazioni più complete, quella diffusa da CNN a fine settembre che, rispetto ad altre, è meno sfavorevole a Perry e nettamente più dura con Cain. E’ interessante capire quale sia il giudizio sui candidati epresso dalle diverse anime del partito. Il governatore del Texas domina sui temi economici (35% contro il 26% di Romney) e sulla leadership (36% contro 21%).

Perry va meglio di Romney con i maschi (36%-19%) ma perde con le femmine (24%-26%), vince tra i conservatori (35%-21%) ma arranca tra gli indipendenti (24%-21%), va meglio al Sud (36%-15%) ma pareggia tra gli elettori suburbani (28%-28%), domina tra i sostenitori dei Tea Party (38%-18%) ma perde di poco tra tutti gli altri (24%-25%), piace sia agli over-50 (35%-23%) che agli under-50 (25%-21%), sia ai benestanti (32%-24%) che alla middle-class (24%-18%). In pratica non esiste un segmento demografico o geografico rilevante in cui Perry non sia in vantaggio o in sostanziale pareggio nei confronti di Romney.

Con un vantaggio così articolato negli internals, verrebbe la tentazione di dichiarare Rick Perry come “favorito d’obbligo”, malgrado il recente contro-sorpasso effettuato ai suoi danni da Romney e Cain nella media dei sondaggi nazionali. Ma non c’è dubbio che l’andamento degli ultimi dibattiti televisivi ha fortemente incrinato questa superiorità, per così dire, strutturale. Da quando Perry ha ufficializzato la sua candidatura, se ne sono svolti tre: il primo organizzato da NBC News e The Politico, il secondo da CNN e Tea Party Express, il terzo da FOX News e Google. In tutti e tre i casi, il governatore del Texas è stato attaccato senza sosta dai rivali, che hanno accettato immediatamente il suo status di front-runner. Perry non ha brillato affatto (soprattutto rispetto a un Romney che sembra molto più preparato di quattro anni fa), ma dall’alto delle suoi numeri non sembrava averne particolarmente bisogno. E molti pensavano che gli sarebbe bastato non fare gaffe particolari per uscire indenne dalla stagione dei confronti televisivi.

A tutto, però, c’è un limite. Dopo il dibattito di Orlando del 22 settembre, perfino i sostenitori più accesi di Perry hanno giudicato negativamente la sua prova. E qualcuno ha persino (prematuramente) pronosticato una veloce uscita di scena. Per ora, del calo di consensi di Perry non sembra essersi particolarmente avvantaggiato Romney, che ancora non riesce a volare troppo oltre quota 20%, mentre Cain e Gingrich hanno ripreso inaspettato vigore. Malgrado i giudizi al vetriolo e il crollo nei sondaggi, il Team Perry non ha spostato la barra del timone neppure di un millimetro. Ma qualche grande finanziatore del GOP, che era ancora rimasto alla finestra (magari aspettando Chris Christie), ha finalmente iniziato a cedere alle lusinghe di Romney. E l’avanzata di Cain potrebbe non essere un fuoco di paglia come quella di qualche mese fa. Se Perry vuole davvero dimostrare di essere il white knight capace di riportare il partito repubblicano alla Casa Bianca, è arrivato il momento di dimostrarlo.

[UPDATE. E il dibattito organizzato stanotte da Washington Post e Bloomberg al Darthmouth College di Hanover (New Hampshire) potrebbe essere il posto giusto per iniziare]

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