Ma il Tea Party dov’è?

Da bravi political junkies state svegli una notte sì e l’altra pure per guardare tutte le trasmissioni politiche da oltreoceano e cercare di capire chi la spunterà nella rissa reale nel GOP, temendo che possa non bastare per mandare a casa Obummer. Leggete e rileggete roba sulla rete, riempiendo di improperi i corrispondenti di radio e televisione mainstream che raccontano favolette su un paese che, forse, esiste solo nei salotti di San Francisco e Manhattan. Sapete cos’è la “nuclear option” ed il “filibustering”, siete informati ed appassionati, magari ne discutete pure su internet con gli amici. Eppure una domanda vi frulla in testa e non riuscite a dargli una risposta. Ma che fine ha fatto il Tea Party?

Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Vista la clamorosa botta di lato B dell’anno scorso, ho avuto modo di conoscere parecchie persone dal lato giusto dell’Atlantico e, senza colpo ferire, diventare una specie di autorità sul movimento in questione (visto il livello di disinformazione e puttanate sparate dai media nostrani non è che sia stato così difficile), provvedo più che volentieri, con i dovuti caveat del caso (non è una posizione ufficiale, parlo solo in quanto osservatore, il movimento è talmente grande e vario che è spesso vero tutto ed il contrario di tutto, you know the drill).

Il fatto sarà saltato agli occhi anche dei lettori più distratti: dopo un 2009 e un 2010 trionfali, il Tea Party sembra andato “in sonno”. Niente più manifestazioni oceaniche, niente marce su Washington, il movimento sembra sparito, sostituito dalla maleodorante, maleducata e vandalica massa degli Indignados di Occupy Wall Street. In politica, spesso, percezione è sostanza. Da qui agli epitaffi per il Tea Party a mezzo stampa, il passo è stato brevissimo (il Times of London, non più di una settimana fa, lo definiva “waning”, ovvero pronto a finire nel cestino della storia).

La realtà è molto più complicata degli schemi interpretativi dei quali molti colleghi sembrano andare matti, as usual. Quando, a metà del 2008, dalle parti di Tucson, Arizona, si pensò per la prima volta ad un movimento anti-statalista, dedicato alla restaurazione degli ideali alla base della Costituzione americana (l’unica che, a mio modesto parere, meriti la maiuscola), nessuno si aspettava di travolgere un sistema costruito con pazienza e metodicità da più di un secolo nel giro di qualche mese. Quando il Tea Party è cresciuto, paese dopo paese, teapartygiano dopo teapartygiano, il messaggio era lapidario: ci vorranno decenni per riportare la nazione ai principi delle origini, al vero capitalismo, al mercato libero da lacci e lacciuoli di ogni genere, alla responsabilità personale, alla carità vera, quella che non maschera biechi interessi di bottega.

Consci che trattavasi di maratona e non di un cento metri alla Usain Bolt, milioni e milioni di attivisti sono tornati a guardare alle proprie comunità, al consiglio scolastico, alle assemblee di contea, al parlamento dello stato, alle millemila cariche elettive del sistema statunitense. Magari non si è notato, ma una gran parte di questi uffici sono stati occupati da esponenti più o meno di spicco della enorme stella marina che sta crescendo al riparo dal sole del meriggio. Tornando alla domanda di partenza, che fine ha fatto il Tea Party? Semplice, è diventato sistema, per questo non ha bisogno di farsi vedere in piazza.

Già vi vedo lì, pronti a ribattere “ma le primarie, allora? Neanche lì si mobilitano?”. Keine Sorge, ecco la risposta. Il Tea Party c’è, eccome, ma non si vede perché diviso in mille rivoli. D’altro canto, aspettarsi compattezza e risoluzione marziale da un movimento fatto da mille anime, migliaia e migliaia di leader locali, millemila portavoci e decine di agende diverse sarebbe stato ridicolo. Il bello del movimento è proprio questo: ognuno per conto suo, nessuno al comando, ma tutti, miracolosamente, uniti quando conta, quando in gioco c’è la libertà.

Il progetto nemmeno troppo nascosto dei “brothers in arms” oltreoceano (qualcuno poi mi dovrà spiegare perché non possa usare la una volta degnissima espressione italiana senza causare attacchi apoplettici e levate di scudi) era quello di prendersi il Partito Repubblicano. Beh, se volete un takeover ostile, niente di meglio che appoggiare tutti lo stesso candidato (capito, Paulbots?), così da compattare think tanks, lobbies, establishment dentro o fuori la Beltway e rischiare di far esplodere la “big tent” del GOP. Gli americani saranno un poco fresconi, non sofisticati come noi europei quando si tratta di decidere se il grigio dei massacri in Siria sia perla o antracite (in quello siamo imbattibili), ma non sono particolarmente appassionati dell’arte tutta italica di randellarsi violentemente i cosiddetti ad ogni occasione, pratica resa celebre dal sommamente non divertente personaggio di Aldo, Giovanni e Giacomo detto Tafazzi.

Sul rapporto tra TP ed establishment parleremo un’altra volta, ma una cosa è assolutamente certa: senza la mobilitazione di Tea Parties ed evangelici, avremo altri quattro anni di disastri alla Casa Bianca e chissà cosa a giro per il mondo (capito perché in Israele è scattato l’allarme rosso da un pezzo?). Anyone but Obama non sarà un granché come piattaforma e rischia di far passare personaggi decisamente impresentabili (tra Mitt, RickS, Newt e RickP, francamente, il migliore c’ha la rogna), ma, per dirla come i transalpini antipatici, “à la guerre comme à la guerre”. La piazza non serve più, se la prendano pure gli sciamannati di Zuccotti Park. Quando ci sarà da combattere sul serio, il Tea Party si farà sentire eccome.

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