Quello che manca

Merito, competizione, concorrenza. Ma c’è dell’altro perché qualcosa possa disperatamente cambiare in uno stato immobile come l’Italia, dove a mancare è anzitutto il coraggio: un’utopia e, a ben guardare, diversamente non potrebbe essere. Questa nazione è come una squadra a corto di fiato, ma che si ostina a mandare in campo sempre gli stessi giocatori e non osa stravolgere i piani, inserendo le forze fresche che non siedono nemmeno in panchina, ma in tribuna.

Il coraggio non è di uno stato dove i legami d’interesse sono saldamente difesi e dove si pretende un cambiamento, sostenendo lo status quo. I sindacati sono ancorati ad un modello lavorativo che non esiste più e che – soprattutto – è destinato a non sopravvivere in un contesto economico come quello attuale, coltivando il culto del contratto a tempo indeterminato, mentre la prima necessità è avercelo, un contratto di lavoro. Confindustria non ammette che si faccia diversamente da quelle che sono le sue istanze, chiedendo che si faccia presto e poi invitando a lasciare che la politica si prenda i suoi tempi. Le categorie professionali pretendono di essere al passo con le realtà estere, ma appigliandosi ai propri regolamenti permettono soltanto allo stato di ingolfare ulteriormente il sistema a colpi di burocrazia, l’arma più affilata per imbrigliare chiunque, compreso chi si presenta alla sfida carico di buoni intenti ed energia. E quindi di coraggio. 

C’è un’epoca storica che riassume il tutto, se non altro perché in quel periodo, quello del boom economico degli Anni ’60, due autori l’uno opposto all’altro hanno trovato il filo conduttore: Giovannino Guareschi e Pier Paolo Pasolini (che tra l’altro nel 1963 si divisero la sceneggiatura del documentario “La Rabbia”, una sorta di visto da destra e visto da sinistra dell’allora presente e dell’oggi futuro formato pellicola). Guareschi e Pasolini rimangono dove stanno, sulle sponde opposte del fiume che li separa, ma intuirono senza dubbio il cambiamento nell’atteggiamento degli italiani, passati rapidamente da una mentalità legata alla cultura contadina – dove lo spirito concorrenziale determinato anche dall’invidia e l’esigenza di non essere disturbati erano fattori tenuti in grande considerazione – ad un’altra piuttosto confusa.

Il boom rappresentò un passaggio epocale, in ogni senso: cominciarono a prendere piede, assieme al benessere diffuso, le ingombranti cariche del consigliere, dell’assessore, del sindaco, dell’onorevole che si accompagnarono agli investimenti lungo tutta la penisola. Il cortocircuito ha impiegato poco a mandare in tilt un sistema dove l’invadenza amministrativa ha messo ovunque il naso.
Gli italiani si sedettero, la longa manus statale ha fatto il resto, cominciando a costruire prima e a saldare poi gli interessi e i privilegi che inutilmente si provano a scalfire. Dopo tutto, a Torino c’era un’azienda automobilistica all’avanguardia nella tecnologia che prima non ha saputo concorrere con le rivali straniere e in secondo luogo si è adagiata nelle grazie governative. Un po’ come affidare una monoposto al più spettacolare dei piloti e costringerlo a correre dietro alla safety car per tutta la durata del gran premio.

Alla vettura italiana stanno prosciugando pure la benzina.

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