Meno male che Boris c’è

Per i malati di politica come il sottoscritto, il giorno delle elezioni non sarà mai un giorno come gli altri. L’avvicinamento alla data fatidica è segnato da tappe precise, ormai marchiate a fuoco nel DNA. La presentazione della candidatura, i primi incontri pubblici, le polemiche furibonde a mezzo stampa, gli strafalcioni in luogo pubblico, le liti con amici, colleghi, conoscenti, il primo dibattito, la spasmodica attesa per i risultati delle corse clandestine, fino al discorso di chiusura della campagna elettorale e la lunghissima giornata di riflessione pre-voto. Verrebbe voglia di contare quante volte sia passato attraverso questo percorso di guerra, ma è notte fonda e, francamente, sarebbe solo l’ennesima futile auto-flagellazione.

Stavolta, invece, le cose sono andate in maniera ben diversa. La ragione è semplice: il mio paese non sapeva che farsene di un giornalista con la spina dorsale ben dritta ed ha fatto di tutto per convincermi a togliere il disturbo. 3 maggio 2012, data segnata in rosso sul calendario, elezioni amministrative della mia città. Londra, Regno Unito. In quanto cittadino comunitario mi è concesso il privilegio di decidere chi la guiderà. Qualche settimana fa, a casa era arrivata una lettera dal council dove vivo nella quale si chiedeva gentilmente di indicare quante persone vivessero a tale indirizzo e completare i dettagli anagrafici. Poi, sempre tramite posta, due altre buste. La prima con la poll card, un foglietto molto poco ufficiale con le indicazioni per il voto, ubicazione del seggio e poche righe di spiegazione su come votare per posta o per procura (basta una telefonata o una mail, anche il giorno prima). Il sopracciglio inizia ad alzarsi quando leggo che la poll card non è necessaria per ricevere le schede elettorali. Mah. La seconda conteneva un libriccino altrettanto dimesso con una paginetta una dedicata ai candidati a sindaco e qualche altra su partiti e candidati alla London Assembly. Toni neutri, niente spreco di parole, programmi magniloquenti o chissà cosa. Un opuscolo informativo, tutto qui. Doppio mah.

Immerso nella routine da superlavoro, quasi ti dimentichi delle elezioni. Niente te le ricorda. Niente. Lungo i sei chilometri e rotti che separano casa mia dall’ufficio neanche un manifesto elettorale. Nemmeno uno, vi giuro. D’accordo, non vivo propriamente in centro, ma la cosa ha dell’incredibile, ripensandoci. A casa non è arrivato nient’altro. Niente di niente. Niente santini, niente volantini che invitino a questa o a quella manifestazione, niente che ricordi da lontano il fatto che l’elezione è vicina. Nulla. Ti immagini quindi che la campagna sia stata ben fiacca, quasi inesistente, che le personalità in campo siano banali, mosce.

Sbagliatissimo. Di fronte c’erano due istrioni della politica, due personalità larger than life, due tra i politici più briosi e fantasiosi che questa terra abbia partorito dai tempi di Disraeli e Gladstone. Eppure nessuno sembra interessato. A lavoro si parla di tutto tranne che delle elezioni. In casa uguale. Una housemate si decide all’ultimo minuto e chiede consiglio su chi votare. Schede elettorali sul tavolo della cucina, discorsetto rapido sui vari candidati, caveat d’ordinanza per ricordarle che sono un fiero card-carrying member del Partito Conservatore (tutte le volte che lo dico sorrido come un idiota). Si fida, un voto per Boris Johnson, uno per il candidato Tory all’assemblea, uno per il partito. Un altro paio di voti li raccatto al lavoro.

La mia campagna pro-Boris finisce più o meno qui. Perché mai? Perché il programma presentato dall’ex collega giornalista fa rabbrividire un Thatcher Conservative come il sottoscritto. “In cinque anni non ho alzato la council tax”. Come? Ma se quel delinquente di Livingstone l’aveva alzata del 150%?! Te ne vanti pure?? “Ho messo altri cinquemila poliziotti sulle strade di Londra”. Come se di gente pagata dalle MIE tasse non ce ne fosse già troppa. “Costruirò migliaia di nuove council houses”. COSA?? Ma se sono proprio queste case popolari ad alimentare il sottoproletariato che sta rischiando di mandare a gambe all’aria il paese!? Ma scherziamo o cosa, Boris? Verrebbe la tentazione di mandarlo affangala. Poi ti ricordi che l’altro, Ken il Rosso, ha preso i soldi dell’Oil for Food da un macellaio come Saddam Hussein e la voglia di astenersi ti passa di colpo. Toccherà turarsi il naso anche in esilio. Santa pazienza.

Il giorno delle elezioni ti svegli leggermente prima del normale. Solito brunch da turno serale al desk, solita routine con due lievi eccezioni. Esci di casa quaranta minuti prima del solito e col passaporto nella tasca della giacca da motociclista. Il seggio è quasi letteralmente dietro casa, ma ci vado lo stesso col fido scooterovici, temendo file e ritardi. Arrivo all’una e venti. Cerco la bandiera britannica, qualche indicazione del seggio, davanti all’ingresso della canonica della chiesa cattolica del mio quartiere vedo appesi due lenzuoli bianchi con scritto “polling station”. Nient’altro. Triplo mah.

Parcheggio davanti, mi guardo intorno, deserto. Niente rappresentanti di lista, niente capannelli di persone, niente di niente. Mi avvicino all’entrata guardingo. Entro ed ho davanti uno spettacolo inconsueto. Tutto si svolge non nella canonica stessa, ma nell’ingresso, una stanza lunga e stretta. Il seggio è lì, a due metri dall’ingresso. Un tavolo sulla sinistra con due persone ed il presidente, un signore dalla barba bianca che di elezioni ne deve aver viste parecchie. Polizia? Neanche l’ombra. La signora indiana mi saluta cortesemente, chiedendomi l’indirizzo ed il nome. Fornisco entrambi ed allungo passaporto e poll card. Mi guarda come se venissi da Marte. Rimetto in tasca il passaporto, non serve. Dice al presidente del seggio “cittadino comunitario”; lui risponde “va bene”.

Mi forniscono le tre schede. Sto per chiedere la matita, ma mi dicono che c’è tutto nella cabina. Mi guardo intorno come un fesso. È dietro alle mie spalle, davanti al tavolo. Una roba di legno costruita chissà quanti anni fa, minuscola, tre ripiani separati da un divisorio dove appoggiare le schede, un mozzicone di matita copiativa attaccato alla cordicella. Niente tendina, la cabina è aperta.

Imbarazzatissimo appoggio il casco, non c’entra quasi, faccio la mia bella x sulle tre schede infilando le altre dietro al casco, non c’è spazio per nient’altro. Mi ricordano, come se la scritta in caratteri cubitali non molto amichevoli sul retro della scheda non bastasse, che non devo piegare il foglio. Attimo di panico. Ma così potranno vedere cosa ho votato! Prendo le schede, mi giro, stando ben attento a tenere lontano dai loro sguardi il mio segretissimo voto. Cerco le urne. Ce n’è una sola, piccolissima, con una feritoia laterale tipo cassetta delle poste. Non sembra molto sicura. Li guardo spaurito, mi dicono di metterle tutte dentro, ben stese. Lo faccio, saluto ed esco. Tempo dell’operazione, due minuti due.

Mi infilo il casco incredulo, avvio il motore ed arrivo in ufficio con più di mezz’ora d’anticipo. Incrocio poco dopo un amico telecronista, veneto ed orgoglioso di esserlo, un altro voto sicuro sicuro per Boris. Mi chiede “ah, ma le elezioni quando sono, domenica, no?”. Quando gli rispondo, la sua espressione è impagabile. “Ma oggi è giovedì. Come faccio ora?”. Il collega anglo-spagnolo ha già votato, per posta, come gran parte degli inglesi. Il risultato non sembra interessare nessuno. Va bene, ci occupiamo di sport e lavoriamo come dei muli da soma, ma sempre giornalisti siamo. Possibile? Scuoto la testa ed inizio l’ennesimo script di una sintesi di Champions League. Asiatica.

Tornando a casa, rifletto su questa strana giornata. Pensieri inopportuni, che si sedimentano fino a quando non mi siedo in camera. Di botto la ritualità dell’elezione che ho sempre conosciuto mi appare per quello che è: una costosissima farsa. La bandiera, il carabiniere stanco ed annoiato davanti al seggio, la pletora di scrutatori tutti pagati, i rappresentanti di lista, la ritualità, la tendina, le frasi di rito a voce alta, “Il signor Bocci ha votato”, il timbro sulla tessera elettorale. Le elezioni per un popolo di minus habens, coreografate ad usum stultorum.

Queste sono elezioni per adulti. La politica, se la vuoi trovare, sai dov’è ma non ti insegue, non ti caccia fin dentro casa, non entra in ogni anfratto della tua vita. Le elezioni sono una parte normale della democrazia, cui partecipa chi è davvero interessato, solitamente una minoranza degli aventi diritto, la quale decide anche per chi ha cose migliori da fare. Senza scandali, senza strilli, senza isterismi da “ultima spiaggia”. Mi passano avanti agli occhi gli oltre dieci anni passati nella politica locale italiana, gli intrighi, gli imbrogli, le piccinerie, le vigliaccate, le menzogne spudorate, gli accordi sottobanco, il disprezzo verso gli elettori, la politica dei portatori d’acqua, dei signori delle tessere. Benedico le mille miglia che mi separano da quella che, nonostante tutti i miei sforzi, rimane la mia Patria. Lacrima da emigrante cacciata indietro rabbiosamente. Hic manebimus optime, cribbio.

Provo ad ignorare il tutto ma alla fine sono costretto ad andare sull’iPlayer ed assistere alla nottata elettorale sulla BBC. La vista di colleghi falso-neutrali ma evidentissimamente sinistrati che trattengono a stento il sorriso è stomachevole, reggo tanto quanto basta per capire che non sarà una bella serata per il partito. Domani si lavora, meglio dormire. Il risultato è arrivato un’oretta fa, a più di un giorno dalla chiusura delle urne, alle dieci di sera, senza se e senza ma, appena scoccano le dieci non importa se sei dentro il seggio, non ti danno più le schede. Ha vinto Boris, Livingstone si ritira dalla politica attiva.

Il partito Conservatore ha preso l’ennesima batosta, i LibDem pure peggio. Milliband e compagnia rubante si scatenano in maniera molto inglese, roba che da noi neanche il più educato dei frequentatori dei salotti televisivi si sogna. Cicciobello Cameron si prepara all’ennesima rivolta dei backbenchers, che hanno trovato un nuovo leader nel sindaco di Londra. Già, perché quel Boris Johnson il cui programma ha scandalizzato il sottoscritto thatcheriano di ferro, è l’ultima speranza dei Tories di riuscire a cambiare questo paese. La ragione è semplice: con tutti i difetti del mondo, Boris non si vergogna di essere quello che è, conservatore. Cicciobello invece crede che per vincere bisogna snaturare il messaggio ed il programma, trasformandolo in una versione meno peggio di quello dei Laburisti. Sempre la solita storia, insomma.

Cicciobello è uno a scelta tra i troppi RINO che infestano il GOP, uno di quelli che a forza di spostarsi “al centro” si è ritrovato più a sinistra dei sinistrati. Boris è una versione più sveglia e media savvy di uno qualsiasi degli idoli del Tea Party, uno che sa come comunicare e che sa circondarsi e fidarsi delle persone giuste, pur non essendo una cima. Uno positivo, che non ha paura di fare gaffes e che demolisce gli avversari a forza di battute. Londra è salva, ma Boris avrà un’assemblea con una possibile maggioranza a lui ostile. C’è chi in condizioni simili, dall’altra parte del Pond, fece miracoli. Hai visto mai?

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