Diario Americano/4

In ambito locale, la campagna elettorale è il momento critico, quello preferito dagli attivisti ed odiato dagli eletti, che preferirebbero di gran lunga restarsene a Washington. Nel collegio, gli eventi principalmente si dividono in due categorie: incontri con le millemila associazioni dei corpi intermedi della società americana e fundraiser dedicati principalmente a riempire il cosiddetto “war chest” della campagna. Entrambi percorsi ad ostacoli ricchi di incognite e possibilità di combinare disastri.

Gli incontri con le associazioni coinvolgono quasi sempre, in ambito repubblicano, visite alle riunioni periodiche dei gruppi Tea Party, unica occasione che hanno moltissimi attivisti di vedersi in faccia e scambiare idee. Il rituale dell’incontro è sempre lo stesso: ci si trova una mezz’ora prima dell’ora prevista in un locale col quale il coordinatore ha concluso un accordo tipo “noi mangiamo tutti da te, tu ci concedi una saletta privata”. Gli esercenti sono ben contenti di accettarlo: di questi tempi ogni cliente è prezioso, specialmente quelli che ritornano ad intervalli regolari. Qualche chiacchiera, due frecciate contro questo o quel politico locale, ogni tanto qualche riferimento alla politica nazionale.

Inutile perderci troppo tempo, tanto tutti la pensiamo allo stesso modo su Obama e compagnia ladreggiante. Gli invitati arrivano sempre con assistenti, volontari ed un piccolo armamentario di propaganda elettorale da distribuire agli interessati. Anche le campagne che non navigano nell’oro cercano di coprire almeno i punti chiave: più che i volantini, che vengono gettati dopo 3 secondi, si preferisce usare i “door hangers”, simili ai “Do not disturb” degli hotel, da lasciare insieme a qualche altro gadget o materiale informativo quando il padrone di casa non risponde alla porta.

Le statistiche dicono che non funzionano molto, ma sono sicuramente meglio di niente e contano come un contatto. Le campagne elettorali sanno che l’elettore medio è convinto a votare e far votare un candidato specifico in proporzione al numero di volte che viene contattato dalla sua campagna elettorale. Il numero magico dei democratici è sette, i repubblicani si accontenterebbero di quattro-cinque (i democratici usano di solito “paid volunteers”, il che, a casa mia, li rende dipendenti non contrattualizzati della campagna, ma questa è un’altra storia, simile al trattamento riservato dalla CGIL ai propri dipendenti) ed ogni forma di contatto conta, basta che non produca effetti contrari. Una telefonata, ad esempio, può valere meno un contatto se il padrone di casa aveva altro da fare o aveva appena ricevuto altre dieci chiamate nell’ultima ora. Il resto della borsa dei trucchi del candidato perfetto è piuttosto tipico: i soliti, coloriti, “bumper stickers” da attaccare all’auto (ora anche magnetici per evitare di rovinare la carrozzeria), poche spillette (sono passate di moda, a quanto pare), l’attenzione si concentra sul vero oggetto del desiderio del politico à la page, il “yard (lawn) sign”.

Ogni candidato arriva con una buona ventina almeno di questi pezzi quadrati di styrofoam con una struttura metallica fatta apposta per infilarsi a fondo nel pratino di fronte alla casa del simpatizzante. Girando in macchina, ci si rende subito conto di quali siano le aree dove la battaglia è più aspra dal numero e dalla densità dei yard signs. Le teorie si sprecano sull’argomento: bisogna concentrare quanti più signs possibili nelle strade di maggior traffico, per aumentare i contatti visivi. No, meglio che i contatti si moltiplichino ma ad intervalli regolari, per rafforzare poco alla volta la convinzione che il candidato è amato dalla comunità locale. Risposte certe non sono in grado di darle, altrimenti starei al quartier generale di Romney per fare il Karl Rove della situazione.

I candidati parlano necessariamente per ultimi; prima lo spazio e l’attenzione va ai problemi del gruppo, alle questioni che stanno a cuore ai militanti. Il cosiddetto “vetting” dei candidati non avviene quasi mai quando sono presenti, ma nelle riunioni avvenute mesi se non anni prima le elezioni e non è un processo certo semplice o lineare. Si è detto in passato che i Tea Parties erano soggetti ad errori di valutazione che avevano portato a sostenere candidati o troppo estremi, come Sharron Angle in Nevada o Christine O’Donnell in Delaware, o solo buoni attori che poi, una volta eletti, più o meno facevano quel che gli pare, come l’ex beniamino Scott Brown in Massachussets. Molti gruppi sembrano aver imparato la lezione ed ora procedono con molta più attenzione prima di concedere il proprio endorsement e mettere a disposizione di questo o quel candidato l’entusiasmo spesso contagioso dei propri attivisti. L’interesse per i candidati, però, rimane alto, come la voglia di fare domande talvolta imbarazzanti.

In questi giorni ho partecipato a diverse di queste riunioni ed invariabilmente i candidati erano trattati con rispetto ma non senza un certo distacco. “Vedremo se sono davvero dei nostri” era il commento più diffuso tra il pubblico. Talvolta ad intervenire sono invece rappresentanti della campagna elettorale, super-attivisti che fanno il giro delle riunioni locali per incoraggiare donazioni o più spesso reclutare volontari per i block walk o le iniziative per convincere gli indecisi. La volontarierà è sempre la chiave di tutto: nessun coordinatore si sognerà mai di indicare all’attivista chi, come e quanto sostenere. Alla fine decide sempre il singolo teapartygiano.

Visti i crescenti costi delle campagne elettorali, il candidato deve necessariamente dedicare la giusta attenzione al secondo tipo di meeting, quello in giacca e cravatta con i potenziali donatori. Questo, di solito, è terreno di caccia prediletto dell’establishment del GOP, la vecchia guardia del partito, esperta nella gestione dei favori e nella caccia al finanziamento. I candidati tutti di un pezzo cari al Tea Party spesso sono pesci fuor d’acqua, costretti a salti mortali e giravolte spaziali per convincere i portafogli pesanti ad aprirsi per affittare qualche altra decina di linee telefoniche per il phone banking o stampare qualche altro migliaio di door hangers. La gestione finanziaria delle campagne elettorali è un’arte difficile da imparare: talvolta anche i campaign managers più esperti finiscono con il riempirsi di debiti fino ai capelli.

Il caso della campagna per le presidenziali del 2008 di Hillary Clinton è quantomai significativo: uno sforzo colossale, guidato da gente più che esperta e sostenuto dalla rete di finanziatori creata dal dinamico duo di Little Rock in otto anni alla Casa Bianca finì comunque in pesante passivo, costringendo la candidata a pagare di tasca propria o chiedere contributi per ripianare il debito, compito quantomai ingrato. Il favoleggiato potere del crowdfunding del Tea Party è reale, ma difficile da controllare, come qualunque cosa legata ai movimenti grassroots. Gli attivisti sono bombardati da decine, centinaia di richieste di aiuto provenienti da ogni parte del paese, capire quale sia la chiave per convincerlo a tirar su il telefono o collegarsi al sito internet ed inviare i 10, 20 dollari che fanno la fortuna delle stelle del movimento è un’impresa quasi impossibile. Un processo tanto laborioso e complicato non può essere la base di una qualsiasi campagna elettorale, ci vogliono anche i finanziatori pesanti, possibilmente al momento giusto, quando c’è da tirare la spallata decisiva e togliere la speranza di farcela all’avversario.

La settimana scorsa sono stato invitato ad uno di questi fundraiser “mascherati”, dove si riuniscono in una stanza potenziali finanziatori con la scusa di sentire un personaggio pubblico o più spesso un pezzo grosso della politica e poi, discretamente, si chiede di staccare un assegno, possibilmente sostanzioso. Appena mi guardo intorno, mi rendo conto con orrore di essere clamorosamente underdressed. Chinos e polo non si accordano al quartiere nel quale sto entrando, quasi come la mia Ford Focus. Questo è un quartiere dove una Cadillac sarebbe guardata con sospetto. Jaguar, Mercedes o Audi only, please, se proprio non avete una Bentley. Case scenografiche, enormi, in ogni stile immaginabile, di quelle che noi europei possiamo al massimo sognare ed invidiare. Chiedo al mio Virgilio Scott quanto potrebbe valere una qualsiasi di queste case. Sospira. “Parecchio, alcune di queste vanno sui 700mila dollari, fino ad un milione” dice lui, sicuro di avermi impressionato. Non trattengo una risata. A Londra con quella cifra ci compri a malapena un appartamento con due camere da letto in zona moderatamente posh.

La mansion dove si tiene l’incontro è particolarmente impressionante: portone di quelli giganteschi, driveway tipo albergo di lusso sorvegliata da tre valet in divisa, garage più grande della bifamiliare nella quale abito. Mi vergogno come un ladro, ma spero che l’appartenenza al Tea Party mi scusi – Scott non è vestito molto meglio di me, io almeno ho i pantaloni lunghi. Il piano è semplice: massimo mezz’ora, per poi dileguarsi, traversare la città ed andare all’ennesima riunione organizzativa del Tea Party di Dallas, il vero clou della serata. Parcheggio mezzo isolato più avanti e ci incamminiamo verso la porta. I valet salutano cortesi, controllare chi sia invitato o meno non è il loro compito.

Per questo c’è la carinissima addetta alla reception subito dopo le scenografiche porte d’ingresso. Essere stato invitato non cambia il fatto che mi senta comunque un imbucato. La brunetta controlla la lista, spunta il mio nome e mi fornisce un adesivo bello grande col mio nome in evidenza. “Lucca Bocci”, il maledetto auto-correttore di Word ha colpito ancora. Sospiro attaccando l’adesivo sopra il marchio certo non adeguato della polo.

La padrona di casa, una signora molto distinta sui cinquant’anni con un elegante ma un poco appariscente tubino rosso ci accoglie con un sorriso falso come una banconota da trenta dollari. Scruto il volto per cercare indizi di un possibile imbarazzo e disagio: non ce ne sono, ma è chiaro che questo incontro non l’ha organizzato per avere invitati della nostra risma. La buona educazione ha il meglio ed i convenevoli, rapidi ma ben eseguiti, scivolano via come niente. Nel pre-salotto, in bella evidenza, un Bosendorfer mezza coda che suscita la mia ammirazione più sconfinata ed un rapido pensiero a Tori Amos, appassionata sostenitrice di questi pianoforti. Ne parlo con Scott, visibilmente disinteressato: l’unica cosa che gli viene da dire è “Sono tedeschi, vero?”. Evidentemente sarebbe stato più contento se la padrona di casa avesse avuto uno Steinway & Sons.

Mentalmente scuoto la testa prima di essere presentato ad un quarantenne dall’aria sveglia e dal look casual ma ricercato che basta a dipingerlo come un erede di una delle tante famiglie danarose che hanno reso famosa la città di Dallas. Quando gli spiegano chi sia e da dove vengo, la solita reazione tra il sorpreso e l’ammirato. Sospiro interno: possibile che dopo due anni e mezzo siano ancora due gatti a sapere che anche in Italia c’è un Tea Party? Evidentemente avrei dovuto darmi molto più da fare.

Il discorso scivola rapidamente sui due protagonisti della serata, Cindy Burkett e Jeb Hensarling, con particolare attenzione per la prima. Prima puntata dei retroscena sulla candidata al Senato del Texas spiegata al forestiero di passaggio: la Burkett è stata eletta la prima volta 4 anni fa nel distretto di Dallas che include Mesquite e Sunnydale, il terreno di caccia di Scott. Una delle poche repubblicane ad avvicinarsi senza esitazione al nascente movimento del Tea Party, ha provato a farsi strada ad Austin sostenendo le proposte di legge che stanno a cuore alla parte conservatrice del movimento, che l’ha sostenuta convintamente. I rapporti con l’establishment, invece, si sono più o meno rovinati quando la Burkett si è unita alla fronda che, seguendo le indicazioni dei Tea Parties texani, si era messa in testa di defenestrare lo speaker della Camera, accusato di essere un RINO (Republican In Name Only) e di avere un record tanto liberal da farlo scambiare per un democratico.

Quando il tentativo è fallito, cosa che ha aggiunto un buon numero di bersagli alla lista dei prossimi obiettivi del Tea Party texano, la Burkett si è vista marginalizzare. Le conseguenze sono arrivate qualche tempo dopo, quando si è trattato di assegnare i collegi ai vari candidati. Invece del più o meno tranquillo distretto di prima, ora la Burkett dovrà vedersela con un ben finanziato marpione democratico, sfida che la costringerà a scendere a patti con la parte danarosa del partito. Cindy, una tipica bellezza texana sui cinquanta, anch’essa fasciata in un tailleur rosso GOP, sembra aver fatto buon viso a cattivo gioco, cercando di dimostrare che può giocare anche al tavolo dei big boys. Appena vede Scott, suo sostenitore da anni, si avvicina, col volto che si apre in un sorriso appena si accorge che ci sono anche io, il teapartygiano venuto dall’altra parte dell’oceano. “Sicuramente vinci il premio per esser venuto da più lontano”, dice lei. Sorriso a mezza bocca da parte mia. La Burkett è una rappresentante della nuova razza di politici repubblicani, che cerca di tenersi buona la base e allo stesso tempo farsi largo nel cursus honorum a stelle e strisce.

Il savoir faire c’è, la presenza pure, le credenziali conservatrici sono positive, un bagaglio che potrebbe aprirle diverse porte in futuro. La stella della serata, lui sì stella nascente del GOP a livello nazionale, si avvicina con aria circospetta, guardandosi intorno a caccia di facce conosciute. Jeb Hensarling, 55enne di Stephensville, cittadina nella quale si è trasferita la sbelluccerosissima Jewel una volta lasciato il natio Alaska, è uno dei conservatori dal record più cristallino alla Camera dei Rappresentanti, cosa che lo rende molto benvoluto al Tea Party texano e nazionale.

Non sarà una stella come Paul Ryan, Mark Rubio, Jim DeMint o Rand Paul ma è uno di quelli bravi che ha dimostrato di saper navigare le limacciose acque del Potomac, battendo Michele Bachmann nel derby per la posizione di segretario della House Republican Conference. Hensarling si diceva tra i possibili eredi di Kay Bailey Hutchinson al Senato, ma poi ha preferito concentrarsi sulla scalata alla Camera, girando parte del suo elettorato a Ted Cruz, che in caso di elezione sarà un alleato importante. Mi viene riferito in confidenza che sarà lui, se il GOP dovesse conservare il controllo della Camera, a diventare il chairman del potentissimo Ways and Means Committee, dove nascono le leggi finanziarie, prendendo il posto dell’incolore deputato del Missouri Dave Camp. Per i prossimi 2 anni, chiunque sia il presidente dovrà vedersela con lui, il secondo repubblicano più taxpayer-friendly, secondo la National Taxpayer Union. Appena mi si avvicina, mi rendo conto che il buon Hensarling sarà al massimo un metro e settanta, cosa inusuale per i politici americani, di solito una via di mezzo tra un giocatore di football e pallacanestro. Non avrà il physique du role del maschio alfa, ma lo sguardo del deputato del 5° distretto del Texas tradisce una determinazione non comune. “Italy? Mica verrai da Italy, Texas?”.

Risatina collettiva, nonostante questa battuta l’abbia sentita almeno cinquanta volte. Hensarling non ha chiaramente molto tempo da dedicare, ma si prende il disturbo di chiedere come vadano le cose per il Tea Party italiano, visto lo stato dell’economia del paese e la crisi dell’euro. Qualche assistente ha fatto i compiti a casa prima dell’incontro. Provate voi a descrivere lo stato di prostrazione di un paese alle corde in trenta secondi. Non penso di esserci riuscito affatto bene, purtroppo. Complimenti e ringraziamenti di prammatica, grazie di essere qui, continuate a combattere, a tener duro.

Grazie, onorevole. Un canovaccio già visto, già sentito mille volte ma che servirà comunque ad entrare nei registri del deputato, rendendo possibile un secondo contatto più avanti. Le leggi della politica, in fondo, sono sempre le stesse. Hensarling passa oltre senza fretta, dandomi il tempo di guardarmi intorno. Tra la scenografica cucina presidiata da un paio di camerieri in divisa ed il salottone dove gli invitati circolano con il piatto in mano ci saranno più di una cinquantina di persone. La proporzione tra alta borghesia ed attivisti semplici è più o meno di dieci ad uno, esattamente quello che ti aspetteresti da un incontro del genere. Età media cinquantacinque anni, reddito medio sicuramente sopra il milione all’anno, brusio fatto di conversazioni mai troppo sopra le righe, una politica molto diversa da quella grassroots cara ai Tea Parties, più simile a quella che conosciamo noi europei.

Scott è venuto qui con un paio di cose da fare, che sbriga piuttosto rapidamente. Prima consegna alla Burkett un assegno con una donazione per la campagna elettorale, poi parla con un paio di altri dirigenti di Tea Parties vicini al suo di questioni organizzative. Il fatto che non passi da capannello a capannello presentandosi, facendosi conoscere e scambiando due parole con tutti gli invitati mi sorprende per un attimo. Qualunque politico o aspirante tale in Italia si sarebbe comportato così. A lui non importa, non pensa neanche lontanamente a candidarsi, il suo “servizio alla comunità” lo ha già trovato, l’obiettivo non è accumulare visibilità personale ma “get the job done” e tornare alla sua vita normale. All’osservatore medio europeo questa cosa non può che sembrare strana, sospetta, ma da queste parti di persone come Scott ce ne sono a bizzeffe. Intervengono in politica portandosi dietro l’etica del lavoro protestante, mista ad un pizzico di disprezzo per la politica politicante.

Si danno da fare come matti per raggiungere i propri obiettivi, sognando il giorno nel quale potranno tranquillamente farsi da parte e riprendere il proprio cammino nella società civile. Il sottoscritto vorrebbe continuare a parlare con questo e quell’invitato, cercare di capire quale sia il loro background, se siano venuti con un’agenda personale o solo per ribadire a tutti di essere “persone importanti” al country club, ma Scott guarda l’orologio e mi fa capire che siamo già in ritardo per la prossima riunione, quella importante, quella dove si parlerà di come riportare la contea sulla strada giusta. Qui, in questa mansion da mille e una notte, si reciterà solo l’ennesima pantomima della politica vecchio stile, fatta di bei discorsi, assegni a diversi zeri, alleanze, favori da rendere, inimicizie, colpi bassi.

La politica vera, quella che cambiando Dallas cambierà il paese, si fa altrove, nella saletta del BBQ con gli altri leader dei Tea Parties della Metroplex area. Da politico vecchio stile come in fondo sono, mi dico che questo disprezzo fin troppo palese è un errore, che l’alta borghesia non è tutta da buttare, che generalizzando ci si preclude la possibilità di costruire utili ponti ma forse, visto come sono andate le cose in Italia, dovrei tacere. Può darsi che abbiano ragione loro, gli estremisti del Tea Party a stelle e strisce, quelli che pensano che si debba ripartire dal basso, tirando dritto per la propria strada, evitando commistioni complicate e pericolose.

Per qualche tempo, quindi, la politica nell’area repubblicana continuerà a procedere su binari paralleli, con due schieramenti divisi da reciproca inimicizia e legati da un matrimonio di interesse tanto utile quanto fragile. Vedremo se il 7 novembre il risultato sarà in grado di unire o di mandare in mille pezzi quella che un tempo si definiva la “big tent” repubblicana.

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