Jewish for Romney (and Bolton)

ORLANDO, FLORIDA – La sede della Congregation of Reform Judaism è appena fuori dal centro di Orlando. Il quartiere è tranquillo: middle-class tendente al basso. Ma nei giardini delle case i cartelli sono tutti per Mitt Romney (e per il candidato repubblicano alla carica di sceriffo nella Orange County, John Tegg). La CRJ non è un covo di ebrei ortodossi, anzi. Il movimento sostiene che le tradizioni ebraiche debbano modernizzarsi e diventare compatibili con la cultura in cui è immersa la comunità. E la piena uguaglianza garantita alle donne è solo una delle tendenze della CRJ che qualcuno definirebbe “progressiste”.

L’incontro con l’ex ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, John R. Bolton, non è esattamente un rally politico. Un cartello sull’entrata della sede avverte: non sono permessi cartelli o indumenti inneggianti a candidati. Un po’ più in là, ad un incrocio qualcuno distribuisce magliette “Jewish for Romney” e adesivi con la “doppia R” in caratteri ebraici. Ma tutto sembra molto più simile a un convegno che a un comizio pre-elettorale. Eppure, quando Bolton entra nella sala, viene accolto da un’ovazione. Ci sono molti giovani, perfino qualche famiglia con bebè frignante al seguito. Ma quando l’oratore inizia a parlare sembra di essere al tempio. Solo qualche applauso scrosciante e un paio di risate rompono il silenzio.

In 16-minuti-16, senza l’aiuto di teleprompter, Bolton distrugge punto per punto la politica estera democratica, disegna scenari credibili per il ruolo americano nel mondo e invita i presenti a fare tutto il possibile per evitare un secondo mandato obamiano. Sulla Libia è durissimo, ma i fuochi d’artificio li riserva al sarcasmo sulla politica di appeasement con Iran e Corea del Nord. Il tema di Israele è soltanto sfiorato: nessuna captatio benevolentiae. Ma questo non gli impedisce di ricevere un’interminabile standing ovation alla fine dell’intervento. Poi, per una ventina di minuti, Bolton risponde alle domande raccolte tra il pubblico, prima di congedarsi dalla platea.

Se credete che Bolton sia il classico neocon con cui la sinistra cerca di spaventare i deboli di cuore, vi sbagliate di grosso. In lui vive lo spirito più genuino del “realismo aggressivo” reaganiano. Poche chiacchiere, tanta sostanza. E un curriculum impeccabile, che ne farebbe uno straordinario segretario di stato. «Tutta un’altra cosa rispetto a Hillary…», sussurra uno degli spettatori dirigendosi verso l’uscita. Ed è così. Tanto da farci ricordare, anche in una tornata elettorale dominata dai temi dell’economia, quanto un regime change a Washington sarebbe importante per il futuro dell’Occidente.

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