La fine di Hmv

Era questione di tempo. Sapevo che sarebbe presto uscito il primo pezzo nostalgico sulla crisi nera della HMV, l’ennesimo di quei pezzi che descrivono la mitica ambientazione in un glorioso passato, quello in cui tutti compravano cd, dvd e videogiochi originali. Quello in cui la parola “pirateria” si diceva a bassa voce e chi non avevano paura di essere beccato comprava le copie piratate dai vucumprà in spiaggia d’estate.

La HMV è un pezzo di storia inglese, un po’ come potrebbe essere considerata la Ricordi per l’Italia. Si tratta di una di quelle aziende che contribuiscono alla creazione dell’identità di una nazione. Durante i miei primi viaggi a Londra, tre cose mi affascinavano da impazzire: i negozi di dischi, la Tube e i punk. Passavo ore e ore nei negozi di dischi inglesi. Li spulciavo tutti, uno ad uno. In Inghilterra, molto più che in Italia, c’era questa cultura del “provare prima di comprare”. A me sembrava una cosa incredibile.

Prendevo un cd, quatta quatta, restia… quasi come se ascoltarlo per vedere se mi piaceva fosse una cosa illegale e proibita. Quando non potevo ascoltare il cd, mi chiedevo, chissà come sarà? E chissà com’è questa band? Eh già perché tu mica lo sapevi prima! Questo non lo dicono mai i menestrelli cantori del passato! Dicono che si stava tanto bene quando non c’era la pirateria digitale, che era tutto più diretto, spontaneo, che c’era il piacere della scoperta.

Uno degli articoli che mi ha più colpito è quello firmato da Willard Foxton, uscito ieri sul Telegraph. Foxton intitola il suo pezzo lanciando un j’accuse collettivo: è colpa di noi tutti se HMV fallisce. Purtroppo nel pezzo non è del tutto chiaro quale sia il nostro grado collettivo di responsabilità. Riusciamo solo a capire che può darsi che HMV abbia messo in campo una bad strategy, che il mercato è massively competitive e che, in parte, sono stati anche sfortunati (their luck was out too).

L’intento di Foxton è comunque chiaro: lamenta il fallimento di un colosso della distribuzione paragonandolo ad altri giganti estinti, come Blockbuster. È giusto, è comprensibile essere scossi da un fallimento di tali dimensioni, soprattutto perché un’azienda che fallisce porta come risultato più tragico la perdita di posti di lavoro. Convincono poco, invece, le conseguenze che il giornalista e produttore televisivo individua come direttamente collegate al fallimento dell’industria della distribuzione. Scrive infatti: “What the death of HMV actually means is a major reduction in how customers will find music to listen to, games to play, and films to watch. Radio is polarised and websites deliver an edited selection as recommendations. It’s only in shops that buyers can mooch around and get into the buying mood, getting a sample played, feeling the product, impulse buying some 1920s experimental Jazz album”.

Ma è davvero così? Veramente con meno negozi di dischi (o di film o di videogiochi) siamo destinati ad avere meno scelta? Utilizzando gli innumerevoli canali attraverso i quali la musica viene diffusa in rete, le possibilità di incuriosirsi ed avvicinarsi a prodotti fuori dai circuiti radiotelevisivi è aumentata. Magari non siamo più soliti gironzolare (smooch around) per un negozio, ma gironzoliamo spesso e volentieri in rete, alla scoperta di artisti meno conosciuti o alla riscoperta di quelli più noti. Chi di noi svilupperà un interesse particolare per una certa produzione musicale, fosse anche il jazz sperimentale degli anni 20 o la produzione secentesca di Claudio Monteverdi, avrà voglia di approfondire e documentarsi.

Magari vorrà concedersi il piacere dell’acquisto di un prodotto originale. Sempre come conseguenza della scomparsa di luoghi dove comprare prodotti dedicati all’intrattenimento, Foxton afferma che sarà very hard for a teenager to actually buy entertainment – with no access to an adult’s credit card, it’s very hard to buy things online if you’re an under 16. Vorrei rassicurare Foxton sul fatto che quando ero adolescente avevo comunque bisogno di un adulto che mi desse i soldi per comprare un cd, perché io non possedevo soldi miei.

Dovevo chiederli, esattamente come oggi una ragazzina di 14 anni chiederebbe insistentemente al suo papà di comprarle on line il nuovo singolo dei One Direction. Non è ancora del tutto chiaro quale sia il futuro di quei pochi negozi che ancora vendono prodotti di intrattenimento. The question now is whether high street retail is dead for good, scrive il giornalista. La cosa certa è che non esisteranno più i colossi della distribuzione per come li abbiamo conosciuti. Non saranno più le grandi aziende che erano prima, semplicemente perché questo non serve più.

E dunque? I negozi sopravviveranno? I negozi devono necessariamente sopravvivere, perché ci sarà sempre un’utenza che cerca un luogo dove comprare fisicamente il prodotto che cerca. Ma spesso quel prodotto che cerca, oggi nei negozi non lo trova. O magari lo trova, ma costa troppo.

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