Gli alibi di Obama

Tre scandali per la seconda amministrazione Obama, a nemmeno un anno dal suo insediamento.

I due scandali scoppiati questa settimana portano i nomi dell’Associated Press e Internal Revenue Service. Quest’ultimo consiste nella vera e propria persecuzione dei membri del Tea Party e di altre associazioni conservatrici da parte di quella che è l’equivalente dell’agenzia delle entrate negli Usa. Chi chiedeva esenzioni fiscali, come previsto dalla legge statunitense per le associazioni non profit, veniva inserito in un binario morto se apparteneva ad una associazione avversaria dell’amministrazione Obama. Lo scandalo, una volta scoppiato, ha portato a un’indagine dell’Fbi sulla condotta dei funzionari dell’Irs e a due licenziamenti di alto profilo: il commissario Steven Miller (accusato dal senatore Orrin Hatch di aver dichiarato il falso al Congresso per coprire il comportamento dei suoi funzionari) e il commissario alle esenzioni fiscali Joseph Grant, diretto responsabile dell’operazione sporca. La discriminazione fiscale ai danni del Tea Party è andata avanti per tutto il 2012, l’anno delle elezioni.

I casi sono due: o l’amministrazione è direttamente implicata, o i funzionari dell’Irs hanno deciso di fare un regalo a Obama, per favorirne la rielezione. Durante l’audizione alla Camera, il deputato Dave Camp (repubblicano, presidente della Commissione che sorveglia la burocrazia) ha dichiarato che «Questi abusi sistematici non finiranno con le dimissioni di qualche funzionario». Il deputato ritiene che tutto il sistema fiscale sia «marcio, alla sua radice». «(Questo episodio, ndr) è solo l’ultimo esempio di una cultura di insabbiamenti e di intimidazione politica di questa amministrazione».

L’Associated Press, nello stesso tempo, denuncia di essere stata spiata dal governo. Anche qui: anno di elezioni, 2012. La nota agenzia stampa era sospettata di essere “troppo sul pezzo” sulle vicende della guerra al terrorismo. La procura generale di Eric Holder (che però attribuisce la responsabilità al suo vice James Cole), ha fatto intercettare le comunicazioni di un centinaio di giornalisti della Ap, cercando di scoprire chi fosse la “talpa” che forniva loro tutte queste intercettazioni. Anche qui si prevedono dimissioni e/o licenziamenti eccellenti: la poltrona dello stesso Eric Holder comincia a vacillare.

Fatto sta che si tratta di un caso di spionaggio interno di una gravità inaudita, per gli standard statunitensi. E la responsabilità unica fa capo a chi guida l’amministrazione: il presidente in carica Barack Obama. Nemmeno Richard Nixon (che si era limitato a far spiare suoi avversari politici, non giornalisti indipendenti) era arrivato a tanto. E si meritò l’impeachment. I media sono stati e sono tuttora i migliori alleati di Barack Obama. C’è da chiedersi in base a quale logica debbano continuare ad esserlo.

Il terzo scandalo, sempre più lampante, riguarda ancora l’uccisione dell’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi, l’11 settembre scorso. Un fallimento di sicurezza e di comunicazione. La Casa Bianca, dopo le numerose informazioni imbarazzanti trapelate alla stampa sulla mala gestione della vicenda, si è decisa a pubblicare 99 pagine di email del Dipartimento di Stato. L’intento era quello di provarne l’innocenza e la buona fede. Il risultato, al contrario, è un boomerang. Perché dalle email emerge che il Dipartimento di Stato ha effettivamente apportato correzioni ai rapporti della Cia, col preciso scopo di discolparsi. I Democratici, al Congresso, dichiarano (forse per automatismo) che queste email dimostrano come non vi sia stato alcun insabbiamento. La realtà documentale dimostra, però, proprio il contrario.

In tutti e tre i casi, i Repubblicani sentono odore di impeachment e si stanno gettando a capofitto per sfruttare la situazione. Ma anche al di là dell’aspetto politico/politicante, agli spettatori della vicenda resta un retrogusto di abuso di potere, esercitato da un’amministrazione che si è sempre voluta presentare trasparente e vicina ai cittadini. Sarà un test per i media. Per ora i media sono stati i principali, se non gli unici, artefici del successo di Barack Obama. Gli hanno spianato la strada nel suo lungo duello con Hillary Clinton nelle primarie democratiche, hanno sottaciuto lo scandalo “Fast&Furious” (armi del governo federale finite nelle mani dei trafficanti messicani, usate per uccidere un poliziotto statunitense), hanno deviato l’attenzione dell’opinione pubblica quando è scoppiato lo scandalo di Bengasi, hanno regalato a Obama la vittoria in almeno due dibattiti su tre con il suo avversario Mitt Romney, dimostrando una compattezza interna e una faziosità senza precedenti.

In ogni singolo episodio, l’attenzione della pubblica indignazione è stata convogliata su figure di secondo piano (come nei recenti casi Ap e Irs), o direttamente sugli avversari repubblicani (Bengasi: i conservatori sono stati accusati di “politicizzare” il fallimento dell’amministrazione), o si è imposta una regola informale del silenzio (“Fast&Furious”). Per quanto, ancora?

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