Il suicidio altruista

Ci si domanda perché, a soli 12 anni di distanza dall’11 settembre 2001, dal più sanguinoso attacco agli Stati Uniti sul suolo statunitense, il presidente Barack Obama voglia iniziare le ostilità in Siria al fianco di Al Qaeda. La realtà è esattamente questa. Inutile, ormai, negare che la resistenza siriana sia completamente penetrata da gruppi jihadisti. Inutile fingere di credere che un intervento statunitense possa sostenere la sola resistenza “laica” dell’Esercito Siriano Libero e non le milizie di Al Nusrah (Al Qaeda siriana) che combattono dalla stessa parte, negli stessi territori e contro lo stesso nemico.

La guerra contro Al Qaeda è tutt’altro che finita. Continuano i raid dei droni statunitensi. Continuano i tentativi di attentato, pianificati nello Yemen, in Somalia e in Pakistan. Eppure, nel bel mezzo di questa guerra, Obama concepisce un’azione (che per ora è rimandata) a favore di una fazione che include Al Qaeda, che, se andrà a buon fine, creerà in Siria un nuovo santuario dei terroristi.

E allora, ancora, ci si domanda perché, a soli 12 anni di distanza dall’11 settembre 2001, con una guerra contro Al Qaeda ancora in corso, il presidente Barack Obama voglia iniziare le ostilità in Siria al fianco di Al Qaeda. “La realtà è complessa” risponderebbe il tipico esperto di relazioni internazionali. La realtà è molto semplice, direbbe l’uomo della strada. Ed è semplicissima, a dire il vero. Lo hanno capito i marines, i marinai, i soldati dell’esercito di terra, che si sono fotografati con il cartello “Non mi sono arruolato per andare a combattere in una guerra civile in Siria al fianco di Al Qaeda”.

Gli hacker della Syrian Electronic Army hanno piratato il sito dei marines, postandovi quelle foto sulla home page. Ma quegli auto-scatti sono autentici. E stanno diventando virali, anche su Twitter, sotto l’ashtag “I didn’t join” (non mi sono arruolato per …). I soldati che si fotografano con i cartelli della protesta nascondono il loro volto, ma non la loro uniforme, portata orgogliosamente, spesso carica di medaglie conquistate sul fronte. Fonti anonime, in tutti i corpi d’arma, rivelano lo stesso identico malumore. I veterani di Iraq e Afghanistan, in particolar modo, si sentono traditi. E li si può capire: questa generazione di soldati, sottufficiali e ufficiali, si è arruolata dopo l’11 settembre 2001, per dare una mano al Paese attaccato, per combattere chi ancora minaccia amici, parenti, vicini di casa.

Combattere dalla parte del nemico (non dell’ex nemico, non di un futuro nemico, ma del nemico attuale) non è forse un tradimento? Se nel 1943 o ’44, in pieno conflitto, gli Stati Uniti si fossero alleati con i nazisti per combattere una delle campagne della Seconda Guerra Mondiale, che cosa direbbero oggi i libri di storia?

Benché questo rischio di svolta a 180 gradi della politica americana sia sotto gli occhi di tutti, forse una sola corrente di pensiero libertario americano, quella degli oggettivisti, riesce a spiegare il perché. Secondo gli oggettivisti, discepoli della filosofa individualista radicale Ayn Rand (1905-1982), il problema della politica estera americana non è la sua inefficienza. Ma il sua natura altruista. “Un mondo sicuro per la democrazia” era quello che il presidente Woodrow Wilson voleva costruire nel 1918, dopo la Prima Guerra Mondiale. “Un’America più sicura” rispondeva Ayn Rand negli stessi anni, fuggita dall’internazionalismo dell’Unione Sovietica e riparata negli Usa a respirare un po’ di sana libertà individuale.

Il problema che aveva individuato Ayn Rand, negli anni del primo e del secondo dopoguerra e in quelli delle guerre in Corea e Vietnam, era proprio l’universalismo della politica estera statunitense. Quella volontà di combattere per “gli altri” e non “per sé”. Alla fine della Guerra del Vietnam, la Rand constatava con orrore come i soldati americani avessero rischiato e perso la vita per difendere un popolo sudvietnamita che non amava né l’America né gli americani. Constatava come quella guerra non fosse stata combattuta per garantire la sicurezza degli americani, ma il benessere di un popolo alleato, in un’area non indispensabile da un punto di vista strategico. Contrariamente ai pacifisti, la filosofa fuggita dall’Urss non è mai stata pacifista. Anzi. Non tollerava neppure l’atteggiamento dei Paesi non-allineati. Il problema che lei individuava era nelcomee nelperchéuna guerra si combatte. Il perché è presto detto: lo Stato deve difendere i propri cittadini da aggressioni esterne. È il suo scopo principale, forse l’unico ruolo legittimo di un governo. Il come è anche presto detto: si combatte usando tutti i mezzi necessari e sufficienti a eliminare la fonte del pericolo.

Il Vietnam non rispondeva a nessuna di queste due caratteristiche: fu combattuta contro un nemico che non costituiva una minaccia diretta alla vita degli americani e fu condotta, deliberatamente, non per cercare una vittoria schiacciante e definitiva sul campo, ma per vincere “i cuori e le menti” di un altro popolo, da una classe politica progressista che voleva applicare le teorie del welfare state anche alla strategia militare. Il problema è proprio nella logica di Wilson: si combatte per rendere il “mondo” sicuro per la “democrazia”, prima ancora che per la sicurezza dei proprio cittadini.

La lezione del Vietnam, così come ce l’ha spiegata Ayn Rand, l’abbiamo purtroppo vista ripetersi in Afghanistan e in Iraq. Cos’è una politica di “nation building”, se non un modo di combattere per gli altri, per il benessere degli afgani, più che per la sicurezza dei cittadini americani? E perché, a Baghdad, appena conquistata la città, gli americani hanno issato la bandiera irachena invece che quella americana? Anche i neoconservatori, prima ancora dei liberal, hanno adottato la filosofia wilsoniana, ritenendo che l’America potesse essere al sicuro solo in un “mondo sicuro per la democrazia”.

Non è solo una questione di etichette o di simboli. In guerra diventa una questione di vita o di morte. In un conflitto combattuto per “gli altri”, si deve necessariamente limitare l’uso della forza. Si deve, prima di tutto, cercare di comprendere cosa la popolazione locale pensa di te, della tua presenza, del tuo modo di combattere. Si devono spendere risorse in aiuti umanitari e welfare locale, in psicologi, etnologi e antropologi, in mediatori culturali e in esperti di religioni, da ascoltare tanto quanto gli strateghi militari. Si devono sottrarre fior di risorse allo sforzo bellico, per regalarle alla popolazione nativa. Ci si deve sempre domandare se sia più lecito rischiare di perdere i propri soldati o rischiare di infliggere vittime collaterali ai civili e la risposta è sempre la prima: meglio perdere i propri soldati.

E soprattutto, se è vero che si combatte per “gli altri”, si deve scendere a compromessi. Tanti compromessi. Si deve dare ascolto a chi governerà quel Paese dopo la tua partenza, compreso chi odia visceralmente il tuo Paese. E così, dal 2005, i “realisti” che sono subentrati ai neoconservatori, hanno iniziato a dar retta ai Fratelli Musulmani, ritenendoli meno pericolosi di Al Qaeda, nella convinzione che possano anche governare senza fare la guerra agli Stati Uniti. Dal 2010 si stanno sdoganando i Talebani in Afghanistan, nella convinzione che la loro sia una minaccia più locale e marginale rispetto a quella di Al Qaeda. Prima, per pudore, si diceva che le trattative fossero avviate solo con i Talebani “moderati”, categoria che esiste nelle menti del Dipartimento di Stato, ma sconosciuta ai Talebani stessi. Adesso è chiaro che si sta trattando direttamente con i Talebani del Mullah Omar.

Che non è propriamente un moderato, visto che fu l’uomo che coprì la preparazione dell’11 settembre 2001. Con un intervento in Siria, l’altruismo della politica estera americana farebbe un passo in più: sdoganerebbe un bel pezzo di Al Qaeda.

In questo modo, però, non stupiamoci del fatto che gli Usa non stiano vincendo la guerra al terrorismo. Che ci siano tuttora attentati o tentativi di attentati. Che l’Islam radicale e totalitario continui ad espandersi e a fare vittime. E che, a soli 12 anni dall’11 settembre 2001, si rischi di combattere una guerra dalla parte del nemico.

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