L’immaginaria icona di sinistra

john-fitzgerald-kennedy-maledizioneIn concomitanza con il cinquantesimo anniversario della sua scomparsa, su entrambe le sponde dell’Atlantico si sprecano i tributi, le celebrazioni e le commemorazioni in ricordo di John Fitzgerald Kennedy. A cinquant’anni da quel tragico giorno in cui il Presidente americano fu assassinato a Dallas, Texas, anche in Italia, come e più che negli Usa, non si contano gli speciali, gli approfondimenti, gli inserti, le trasmissioni tv, i documentari, le repliche di film (su tutti, il tanto ben realizzato quanto poco documentato lungometraggio di Oliver Stone), i libri in edicola, i volumi in libreria, i DVD, e molto altro ancora per ricordare il mito. Il mito, appunto, perché di tale si tratta, spesso e volentieri: il ricordo di un’icona, di qualcosa ormai più appartenente alla cultura pop che alla politica.

L’ennesima consacrazione di una rappresentazione venutasi a creare post-mortem, e affermatasi negli anni seguenti, trasformatasi infine in doverosa realtà, in obbligato pensiero unico collettivo, sempre più difficile da smentire. È l’immagine che troviamo su pressoché ogni testata in questi giorni: quella del Kennedy icona liberal, padre fondatore della sinistra moderna – sia americana che italiana – leader  e figura politica tra le più grandi del ’900, che non può assolutamente mancare nei pantheon degli odierni rappresentanti del progressismo.

C’è solo un piccolo, difficilmente trascurabile, problema: JFK non era un liberal, e la sua breve presidenza non è stata tra le più rilevanti del secolo scorso, anzi. Ferdinando Fasce, professore straordinario di Storia dell’America del Nord all’Università di Genova, corresponding editor per l’Italia del “Journal of American History” e autore, tra le altre cose, di “I presidenti Usa – Due secoli di storia” (2008, Carocci editore), nella sua opera menziona il “falso mito di un Kennedy liberal e progressista”, il quale “in realtà non trova riscontro né nei primi due anni dell’amministrazione kennediana, né tanto meno nella carriere congressuale precedente dell’ex senatore”. E nota ancora: “Kennedy, concordano le sue più recenti e accreditate biografie, era sì un leader ispirato, capace come pochi di raccogliere consenso personale, colto e pronto nelle decisioni, ma era anche e soprattutto un moderato un politica interna e un convinto cold warrior in politica estera”. Insomma, quasi un falco, per utilizzare un termine piuttosto abusato negli ultimissimi tempi.

Su una linea d’onda analoga a quella di Fasce, anche un altro osservatore delle cose americane, Mauro Della Porta Raffo. Il quale, nel suo “I Signori della Casa Bianca” (2004, Edizioni Ares), invocava la necessità di interrogarsi “sulle sue effettive capacità e sui risultati raggiunti dalla sua amministrazione, talmente modesti da far ritenere che il pur incolore Carter debba dolersi di un qualsiasi paragone con il suo predecessore”. Per suffragare la sua tesi, Della Porta Raffo metteva in evidenza alcuni fatti, in netto contrasto con i pensieri ricorrenti, e perennemente infondati, sul Presidente assassinato a Dallas: “è Kennedy che dà inizio alla Guerra del Vietnam inviando oltre diecimila ‘osservatori militari’ (splendido eufemismo) a sostenere il corrotto regime amico del Sud”. Inoltre “a lui si deve il definitivo allontanamento di Fidel Castro e di Cuba dall’Occidente” a seguito del fallimento della Baia dei Porci. Non solo: “è con Kennedy alla Casa Bianca che viene eretto il Muro di Berlino, ed è con la sua presidenza che gli Usa riprendono la corsa agli armamenti attraverso un massiccio riarmo”. Se questa era la politica estera, non da meno erano le cose all’interno dei confini Usa: per i diritti civili, sottolineava l’autore, “la sua opera – in seguito esaltata – fu lenta e pochissimo convinta tanto che, nel marzo 1963, un Martin Luther King profondamente deluso lo accusava ‘di essersi accontentato di un progresso fittizio nelle questioni razziali’”. Insomma, il tanto vituperato (e meno celebrato) Lyndon B. Johnson ottenne molti risultati in più, su questo fronte. Ciliegina sulla torta, per Della Porta Raffo (e Maldwyn Jones prima di lui), JFK si trovava in una fase di stallo, destinato a una quasi sicura sconfitta nelle elezioni del 1964.

Più recentemente, anche Larry J. Sabato, direttore del “Center for Politics” della Università della Virginia e autore del volume “The Kennedy Half-Century: The Presidency, Assassination, and Lasting Legacy of John F. Kennedy”, ha approfittato delle colonne dell’autorevole Washington Post per smascherare “Cinque miti su John F. Kennedy”. Tra questi, spicca al numero due la leggenda del “presidenteliberal”, un’idea tanto diffusa, quanto falsa, “perché Kennedy è oggi associato al movimento dei diritti civili e perché la sua eredità è legata a quelle dei suoi fratelli, gli assai più liberal Bobby e Ted” (entrambi peraltro su posizioni moderate, finché Jack era in vita). “In realtà”, spiega Sabato, “JFK era un capo cauto e conservatore, un conservatore fiscale, attento alla spesa e al deficit, e promosse un taglio delle tasse che divenne il modello su cui si basò Ronald Reagan nel 1981”. Come se ciò non bastasse, “la sua iniziale retorica della Guerra Fredda era così aggressiva al punto da essere citato spesso sia da Reagan che altri Repubblicani nella battaglia contro il comunismo. E Kennedy era così esitante e timido in materia di diritti civili da frustrare i leader del movimento, fino a quando non sviluppò una sua visione per l’uguaglianza di diritti nel giugno 1963”. Tale analisi risulta essere condivisa anche da altri osservatori, tra cui il neocon Norman Podhoretz, fondatore della rivista “Commentary” che, in una intervista rilasciata a Maurizio Molinari su La Stampa nei giorni scorsi (intitolata, non a caso, “Macché di sinistra. Con le sue idee ha anticipato Reagan”), ha affermato che “la sua campagna elettorale nel 1960 ebbe le stesse tre priorità di quella di Ronald Reagan vent’anni dopo: tagli fiscali, aumento delle spese militari e abolizione delle discriminazioni contro gli individui. Reagan votò per Kennedy e si richiamò apertamente alla sua presidenza. I democratici invece, a cominciare dal fratello Ted, fecero l’opposto: spostarono le posizioni del partito di 180 gradi rispetto a John Kennedy”. Non solo: a quanto pare, il Presidente democratico e cattolico mal sopportava i liberal: “In privato li disprezzava. In particolare li identificava con Adlai Stevenson, che poi nominò ambasciatore all’ONU”, sostiene Podhoretz.

Per molti, alla luce della credenza popolare instauratasi e rinforzatasi negli ultimi decenni, può risultare difficile a credersi che John Fitzgerald Kennedy rispettava Richard Nixon (un uomo politico che preferiva a molti componenti liberal del Partito Democratico), sosteneva il Senatore Joseph McCarthy (sì, proprio colui dal quale scaturì il maccartismo, con cui collaborò), si fidava poco del già citato Stevenson (esponente di spicco dell’ala più a sinistra dei Democratici), era a favore dei tagli alle tasse e, last but not least, era uno strenuo e feroce anti-comunista. Eppure, a differenza dell’immagine generalmente dipinta dai mainstream media, la realtà racconta che JFK era tutto fuorché un liberal, tutto fuorché un’icona della sinistra. Anzi, come provocatoriamente nota Jeff Jacoby sul “Boston Globe”, probabilmente i Democratici attuali, quelli di Barack Obama, John Kerry e Al Gore, non prenderebbero neppure in considerazione un John F. Kennedy, con idee così conservatrici. “Kennedy non era un liberal”, scrive Jacoby. “Per qualunque definizione ragionevole, era un conservatore – e non solo per gli standard dei giorni nostri, ma anche per quelli della sua era”. Un’affermazione, quest’ultima, confermata dalle numerosissime testimonianze dell’epoca, raccolte in un libro di recente pubblicazione, “JFK, Conservative”, dello storico Ira Stoll, in cui si ricorda, per esempio, la sfida delle elezioni del 1960 dove “il candidato anti-comunista, anti-big government era John F. Kennedy. Colui a favore dei programmi governativi e di salari più alti per i dipendenti pubblici era Richard Nixon”.

In prossimità del cinquantesimo anniversario della morte, seppur soverchiate dal pensiero un po’ stereotipato, un po’ politicamente corretto, del Kennedy pacifista e progressista, precursore dell’attuale classe dirigente del Partito Democratico americano e di una parte della sinistra internazionale (nonché italiana, naturalmente, Walter Veltroni docet), si stanno a poco a poco diffondendo e moltiplicando anche le voci contro corrente. Una serie sempre più nutrita di stecche nel coro che, contro l’artefatto pensiero unico del kennedismo posticcio, tentano di raccontare i fatti da un altro punto di vista, che mal si coniuga con le idee di coloro che hanno sfruttato – anche a loro insaputa – l’immagine di JFK a proprio uso e consumo politico. Una posizione sicuramente più scomoda. Ma senza dubbio più vicina alla realtà, di molta della letteratura celebrativa vista finora.

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