Ritratto politicamente scorretto di Mandela

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Alle “monache di Monza” che, a differenza di quella manzoniana, si risolvono a cambiar vita, i buoni confessori dicono che una lunga astinenza è come una seconda verginità. Sarà per questo che la sua “canonizzazione” in vita ha fatto scordare a tutti le vere origini di Nelson Mandela. Ma i giornalisti sono al mondo per questo.

Il suo vero nome era Rolihlahla Dalibhunga, ed era principe di un ramo cadetto dei thembu di lingua xhosa. È nato il 18 luglio 1918 a Mevzo, sulle rive del Mbashe, nel distretto di Umtata, nel Tembuland, capitale del Transkei, già Bantustan, nella Repubblica Sudafricana sudorientale, indipendente dal 1979 (a Qunu, che molti ritengono avergli dato i natali, la sua famiglia si spostò quando il padre, Gadla Henry Mphakanyiswa, perse la successione, alienandosi il favore delle autorità coloniali). Alle elementari un maestro, pastore metodista affascinato dall’eroe di Trafalgar, non riuscendo a pronunciare “Rolihlahla”, lo ribattezzò Nelson; per la cronaca, Rolihlahla, significa “piantagrane”. Il cognome, Mandela, era il nome di un figlio di un suo avo, re Ngubengcuka, passato in eredità come cognome. Nel 1940, 22enne, si ribella, assieme al cugino Justice, al matrimonio combinato dal capo thembu Jongintaba Dalindyebo, che lo aveva allevato come un figlio. Dopo di ché avrà tre mogli (suo padre quattro, lui era figlio della terza), la più nota delle quali è stata la seconda, Winnie Madikizela, la quale la sapeva lunga sui bagni di sangue degli anni 1980 e 1990, Soweto e giù di lì. Era così estremista, la Winnie, che un giorno il Nelson le preferirà la seconda verginità in panni democratici, ripudiandola.

All’università di Fort Hare, Johannesburg, Mandela studia Legge, si fa cacciare per tafferugli studenteschi, ma fa in tempo a conoscere il suo Pigmalione, Oliver Tambo, presidente (per lungo tempo) dell’African National Congress, la madre di tutte le rivoluzioni comuniste sudafricane, organizzazione finita fuorilegge nel 1960. Il Nelson vi entra nel 1942, nei suoi circoli stringe amicizia con Yossel Mashel “Joe” Slovo, futuro leader del Partito Comunista Sudafricano, nel 1952 diviene presidente dell’ANC per Transvaal e nel 1961 crea l’organizzazione Umkhonto we Sizwe (“Lancia della Nazione”), ovvero il braccio militare dell’ANC. Per le strade la gente comincia a farsi male. I neri che non si riconoscono nell’ANC e nel PC sudafricano finiscono con i copertoni al collo in fiamme. Nel Paese il problema razziale è enorme almeno da quel 1948 in cui il Nasionale Party, la formazione dei nazionalisti afrikaans, impone l’apartheid. Ma che il comunismo dell’ANC non sia mai stato la soluzione, anzi sempre parte integrante del problema, è evidente. Per esempio lo è all’Inkatha Freedom Party, guidato dal re zulu Mangosuthu Buthelezi, nero come la pece, nemico giurato del comunismo e dell’ANC. Del resto il compagno Slovo, di origine lituana, aveva la pelle bianca.

Un giorno, il 5 maggio 1962, Mandela viene arrestato a Howick, nel Natal, e condannato a 5 anni per reati minori. Alle sue spalle vi era però la serie di attentati che, dal 21 marzo al 19 aprile 1960, avevano ucciso 86 persone e ferite 424, tutti attribuiti all’ANC e alla sua ala scissionista, il Pan Africanist Congress. Poi l’11 luglio 1963 la polizia scopre a Rivonia, vicino a Johannesburg, l’alto comando, clandestino, dell’Umkhonto we Sizwe. Mandela finisce ancora sotto torchio e alla fine è condannato per cospirazione. Al processo vengono ascoltati 173 testimoni, ma è lo stesso Mandela ad ammettere apertamente che la sua organizzazione persegue scopi politici attraverso la violenza. In più, dice di avere personalmente progettato azioni di sabotaggio e di avere organizzato campi di addestramento militari all’estero, uno dei quali lo ha seguito pure lui in Algeria. Del resto aveva anche teorizzato la lotta armata di classe in manuali tipo quello intitolato Come essere un buon comunista, in certi documenti politici sul “materialismo dialettico” saltati fuori al processo di Rivonia e nell’opuscolo Operation Mayibuye (cioè “ritorno”) dove il precedente citato a esempio è la guerriglia comunista a Cuba, capace di vincere e di reggere. In uno dei testi sequestrati dalla polizia e presentati al dibattimento in aula, Mandela dettagliava quel suo cursus honorum rivoluzionario in nome del marxismo-leninismo per cui erano necessarie, fra l’altro, 210mila bombe a mano, 48mila delle famigerate mine antiuomo e 1500 timer per altrettanti ordigni. Il 23 agosto 1985, in un’intervista non firmata comparsa su La Stampa, Mandela la disse tutta: «Il bianco deve essere completamente vinto e spazzato dalla faccia della terra prima di realizzare il mondo comunista».

In prigione Mandela ci ha passato così 26 anni e mezzo, dal giugno 1964 all’11 febbraio 1990. Da libero, ha assunto subito la presidenza ufficiale del buon vecchio ANC, e il 10 marzo 1994 si è insediato come presidente democratico e osannato del nuovo Sudafrica postrazzista. Fra i suoi ministri c’era l’immarcescibile Slovo, il bianco rosso. Ispirato da Karl Marx e dai cappellani della “teologia della liberazione”, Mandela è stato paragonato al Mahatma Gandhi (che iniziò la carriera proprio in Sudafrica e che, guarda caso, ammirava pure lui il filosofo di Treviri). Dalle sue parti lo hanno venerato come “Madiba”, un titolo onorario adottato dai membri anziani del suo clan e mutato in nomignolo poi di successo mondiale. Nel 1993 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace, nonostante la guerriglia comunista, il tifo per Saddam Hussein e le amicizia con Yasser Arafat (terrorista, antisemita, pure lui Nobel per la Pace nel 1994), Fidel Castro e Muhammar Gheddafi. E pure nonostante avesse affermato ‒ in una intervista a John Lofton su The Washington Times, sempre dell’evidentemente assai produttivo 23 agosto 1985 ‒ che: «non vi è alternativa alla rivoluzione violenta, non vi è spazio per una lotta pacifica».

Sia scritto nero su bianco: l’apartheid è una schifezza, la segregazione pure, il razzismo peggio. Ma che Mandela sia stato un nero per caso?

Da L’Intraprendente

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