USA 2014. 1) La maledizione del sesto anno

© Il Foglio, dall’edizione del 3 ottobre 2014
camera-senato2014I meteorologi della politica americana scrutano l’orizzonte, in cerca di segni. E cercano di rispondere alla “grande domanda”: assisteremo a un’onda repubblicana alle elezioni di mid-term del 4 novembre? Il Partito repubblicano, insomma, sarà in grado di ripetere al Senato l’exploit del 2010, grazie al quale ha riconquistato il controllo della Camera con la più larga affermazione elettorale dal 1946?

Il terreno su cui si gioca la partita, almeno in teoria, dovrebbe essere particolarmente favorevole al Gop. Alla Camera, la maggioranza repubblicana (233-199) non sembra a rischio: secondo gli analisti i seggi competitivi sono appena una quarantina, equamente distribuiti tra incumbent democratici e repubblicani, ma i veri toss-up, su cui è ancora impossibile azzardare una previsione, sarebbero appena 14-15. Per riprendersi la maggioranza (almeno 218 seggi), i democratici dovrebbero battere tutti i repubblicani a rischio, senza perdere mai. E si tratta di un “punteggio perfetto” quasi impossibile da realizzare, con il “job approval” di Barack Obama sotto al 50% da ormai venti mesi consecutivi e che è oscillato tra il 40% e il 44% per tutto il 2014 (la media dei sondaggi, nel momento in cui scriviamo, è al 41-42%).

Anche nella partita dei governatori, che il 4 novembre porterà a votare gli elettori di 36 stati su 50, il Partito democratico non ha molte speranze di invertire i rapporti di forza che oggi vedono il Gop controllare 29 stati contro 21. Analizzeremo la questione più approfonditamente in uno dei prossimi articoli di questa serie, ma al momento i pick-up democratici e quelli repubblicani dovrebbero più o meno annullarsi a vicenda, con i primi favoriti in Maine, Pennsylvania e Kansas, ma i secondi favoriti in Arkansas, Colorado e Connecticut. E con l’incognita del Wisconsin, dove il governatore repubblicano Scott Walker si gioca la possibilità di essere uno dei contendenti alla Casa Bianca nel 2016.

Il piatto forte di queste elezioni è però il Senato, oggi controllato dai democratici con 53 seggi (a cui si devono aggiungere due “indipendenti” del Vermont e del Maine che votano regolarmente insieme a loro) contro i 45 dei repubblicani. Visto che in caso di parità (50-50) il voto decisivo spetterebbe al vicepresidente Joe Biden, per conquistare la maggioranza della Camera Alta i repubblicani devono uscire dalle urne con un saldo positivo di almeno 6 stati. Anche il Senato sarà oggetto di un’analisi più dettagliata nelle prossime settimane, ma in questo caso la situazione appare ancora molto fluida. Ed estremamente incerta. Negli Stati Uniti il mandato dei senatori dura sei anni. E proprio sei anni fa, nel 2008, al traino della candidatura di Obama alle presidenziali, i democratici hanno vinto al Senato anche in stati di tradizione repubblicana (Lousiana, Arkansas, Montana, South Dakota, Alaska, West Virginia) che oggi sembrerebbero pronti ad abbandonare gli incumbent democratici. O almeno, questo è quello che sperano dalle parti del Gop. Anche perché il 2014 non è un “sesto anno” qualsiasi.

Il “prurito” coniato da Kevin Phillips

«È qualcosa di certo, come il sole che sorge ogni mattina». Charlie Cook, analista del National Journal e di Nbc News, oltre che autore dell’omonimo “Cook Report” e guru dei political junkies a stelle e strisce, non usa giri di parole: la “maledizione del sesto anno” esiste. Ed è in grado di far perdere il sonno a Barack Obama e Harry Reid (il leader della maggioranza democratica al Senato).

Cruccio dei politologi americani per decenni, la maledizione è stata battezzata “Six-year itch” (la traduzione letterale di “itch” è “prurito”) dall’analista repubblicano, poi pentito, Kevin Phillips. E funziona così: il partito del presidente perde un significativo numero di seggi al Congresso ogni volta che le elezioni di mid-term capitano dopo sei anni che il partito in questione occupa la Casa Bianca. Questo accade perfino se, durante i due mandati, cambia il presidente (Kennedy/Johnson nel 1966 e Nixon/Ford nel 1974).

Siete scettici? Sbagliate, perché dal 1910 ad oggi – in nove elezioni sulle dieci che si sono svolte in un sesto anno di mandato – il partito del presidente ha perso seggi sia alla Camera (una media di 30) che al Senato (una media di 8,6). E la maledizione ha origini addirittura precedenti al ventesimo secolo, visto che ha colpito duramente i repubblicani di Ulysses Grant nel 1874 e i democratici di Grover Cleveland nel 1894.

Certo, ogni sconfitta elettorale è una storia a sé. Nel 1918, i democratici hanno perso perché, dopo aver condotto una campagna per le presidenziali all’insegna del pacifismo (lo slogan era “He kept us out of war”), Woodrow Wilson ha trascinato gli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale. Nel 1926, gli scandali dell’amministrazione Harding hanno azzoppato i repubblicani. Nel 1950, la Guerra in Corea e gli scandali dell’amministrazione Truman hanno azzoppato i democratici. Nel 1958, la recessione ha penalizzato i repubblicani. Nel 1966, il Vietnam ha penalizzato i democratici. E poi il Watergate nel 1974, come l’Iraq nel 2006, sono alla radice delle sconfitte repubblicane durante le amministrazioni Ford e Bush. La lista è lunga e variegata, ma la maledizione resta. E le uniche eccezioni a questa regola si sono verificate nel 1806 con Thomas Jefferson, nel 1866 dopo l’omicidio di Abraham Lincoln e, più di recente, nel 1998 durante il secondo mandato di Bill Clinton.

«Ovviamente – spiega Cook – questo non significa che gli elettori americani abbiano la data di ogni elezione di mid-term durante un secondo mandato presidenziale cerchiata sui loro calendari, per ricordarsi di mandare a casa il partito che occupa la Casa Bianca. Ma la novità, l’energia e l’eccitazione provocata da un presidente appena eletto tende a scomparire nei secondi quattro anni. E normalmente si assiste a una scarsità di (buone) nuove idee e, per dirla fuori dai denti, un certo livello di affaticamento inizia a deteriorare la relazione tra un presidente e il suo elettorato». Per dirla ancora più “fuori dai denti”, poi, nel caso di Obama – che non è Clinton e neppure Jefferson – questa relazione sembra ormai del tutto compromessa.

Il confronto con Bush

Esattamente alla metà di settembre di otto anni fa, alla fine del sesto anno di mandato di George W. Bush e a un mese e mezzo dalle elezioni di mid-term del 2006, il “job approval” del presidente repubblicano – secondo Gallup – era al 44%. In leggera risalita dopo una brutta estate (sotto al 40%) e una primavera ancora peggiore (con un record negativo del 31%). Malgrado questa tenue ripresa nella fiducia degli americani in Bush, a novembre di quell’anno il Partito repubblicano uscì con le ossa rotte dalle elezioni di mid-term, perdendo 6 seggi al Senato, 30 alla Camera e la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Da quel momento in poi, la popolarità di Bush Jr. cominciò a scendere costantemente, fino ad arrivare al 25% nell’autunno del 2008, prima di risalire leggermente nelle ultime settimane della sua presidenza.

Oggi, alla fine del sesto anno di mandato di Barack Obama e a un mese e mezzo dalle elezioni di mid-term del 2014, con il 42% di “job approval” secondo Gallup, il presidente democratico si trova più o meno nella stessa situazione di Bush Jr., con l’unica differenza che i suoi numeri non sono in crescita, ma piatti come l’encefalogramma di uno sgabello. E stazionano nei “low-forties” dalla primavera del 2013.

La maggior parte dei sondaggi sulla fiducia, poi, è effettuata sugli elettori “registrati”, non su quelli che probabilmente andranno a votare a novembre. E questo, secondo (l’ormai ex) enfant prodige della statistica Nate Silver di “Fivethirtyeight”, di solito favorisce i democratici. «I sondaggi sui cosiddetti likely voters – scrive Silver – sono quasi sempre più favorevoli ai repubblicani rispetto a quelli che registrano le preferenze di un campione più ampio, come quello dei registered voters o di tutti gli americani adulti. (…) Nel 2010 il sondaggio medio condotto tra i likely voters era 6 punti percentuali più favorevole ai repubblicani rispetto al sondaggio medio condotto tra i registered voters nello stesso stato”.

Storicamente, insomma, gli elettori repubblicani – che sono più vecchi e più bianchi dei loro colleghi democratici – sono anche più propensi a votare nelle elezioni di mezzo termine. E l’arma più dirompente del Partito democratico per opporsi a questa tendenza, cioè l’alto turn-out tra le minoranze stimolato dalla presenza forte di Obama in campagna elettorale, è al momento un’arma a cui mancano le munizioni. A cui manca, disperatamente, proprio Obama.

Dopo aver perso la fiducia di repubblicani e indipendenti nella gestione dell’economia e della politica estera, infatti, il presidente – da formidabile risorsa – si è trasformato in un peso per il suo stesso partito. E i tentativi compiuti dai singoli candidati sul territorio per “dissociarsi” dalle sue politiche (e soprattutto dall’Obamacare) sono ormai quasi comici nella loro spudoratezza. Dai goffi tentativi per farsi fotografare insieme al “primo presidente nero”, insomma, si è passati agli spot in cui si sottolineano le differenze tra il candidato democratico di turno e l’inquilino della Casa Bianca. L’ultima, clamorosa, dimostrazione di questa crescente divergenza tra gli interessi del Partito democratico e l’ansia da prestazione di Obama è la decisione di rinviare a dopo il voto qualsiasi spinta dell’esecutivo sull’immigrazione, altro tema su cui i democratici sono disallineati rispetto alla maggioranza dell’elettorato. Una mossa “tattica”, fortemente voluta dal partito e accettata con rassegnazione dal presidente, che ha fatto infuriare la base progressista.

Sono i numeri, però, in questa fase della campagna elettorale, a dettare le strategie delle parti in campo. E, almeno finora, i numeri parlano chiaro. Commentando un sondaggio di Nbc e Wall Street Journal in cui solo il 32% degli intervistati si dichiara favorevole alla politica estera obamiana, Jay Cost del “Weekly Standard” nota come il presidente e il suo partito stiano perdendo il consenso dei propri elettori anche su temi in cui il vantaggio dei democratici dovrebbe essere strutturale. «Analizzando il sondaggio per ogni singolo argomento – scrive Cost – emerge chiaramente come i repubblicani siano in forma migliore rispetto ai loro avversari. Lo sono perché gli elettori si fidano maggiormente di loro sugli argomenti che considerano più importanti. I democratici hanno un vantaggio netto di 28 punti sugli “interessi delle donne”, di 27 punti sull’ambiente e di 15 punti sull’aborto. Ma sulle tasse (+4), sull’immigrazione (+7), sull’economia (+10), sulla politica estera (+18), sul deficit (+18) e sulla difesa nazionale (+38) il Gop è in vantaggio. E in ognuna di queste metriche, il Partito repubblicano è migliorato rispetto a un anno fa, spesso in maniera sostanziale».

Aspettando l’onda

All’inizio di marzo, ancora prima che iniziasse il ciclo delle primarie, Sean Trende – analista di Real Clear Politics e co-autore, insieme a Michael Barone, delle ultime edizioni di “The Almanac of American Politics” – ha elaborato un modello probabilistico che mette in correlazione il “job approval” del presidente con il numero di seggi conquistati alle elezioni di mid-term. Secondo questo modello, con la fiducia al presidente al 43% (più in alto, cioè, del 41-42% di oggi), a novembre i repubblicani dovrebbero guadagnare tra i 7 e i 12 senatori. Strappando dunque la maggioranza ai democratici. Si tratta di una previsione in linea con quella che – almeno al momento – emerge dal modello elaborato da Nate Silver, che oltre ai “fundamentals” (tra cui la fiducia in Obama e l’andamento dell’economia) tiene conto anche dei sondaggi nazionali e di quelli stato per stato. Secondo Silver i repubblicani hanno circa il 58% delle chance di riconquistare il Senato. E il risultato più probabile sarebbe quello di 52-48 (con 8 seggi guadagnati dal Gop).

La situazione, soprattutto al Senato, è ancora troppo instabile per poter essere fotografata con esattezza, ma più meno tutti i “pronosticatori di professione” puntano il dito nella stessa direzione. Per l’HuffPost Pollster Model, nel momento in cui scriviamo, i repubblicani hanno il 59% di possibilità di ottenere la maggioranza al Senato. Per l’Election Lab del Washington Post questa percentuale sale fino al 77%. Il Cook Political Report si tiene ancora sul vago e considera ancora dieci stati come toss-up al Senato (Alaska, Arkansas, Colorado, Iowa, Louisiana, Michigan, North Carolina, Georgia, Kentucky e Kansas). Per la “Crystal Ball” di Larry Sabato, invece, la situazione sarebbe di 49-48 per i repubblicani, con tre toss-up decisivi (Alaska, Iowa e Louisiana). Secondo il Rothenberg Political Report, infine, il seggi conquistati dal Gop dovrebbero essere tra i 5 e gli 8, anche se Stuart Rothenberg in persona è convinto di un risultato migliore da parte dei repubblicani. «Sono stato testimone di diciassette cicli elettorali, tra cui otto elezioni di mezzo termine – scrive Rothenberg – e a volte sviluppo la sensazione di quale sia la dinamica del ciclo prima che i numeri dei sondaggi mi portino ad elaborare una previsione. In genere non condivido con gli altri queste sensazioni, ma quest’anno voglio farlo. Dopo aver analizzato i dati degli ultimi sondaggi nazionali e locali e dopo aver comparato questo ciclo elettorale con quelli precedenti, io credo che a novembre assisteremo a un’onda repubblicana di notevoli dimensioni».

La “sensazione” di Rothenberg, che coincide con la speranza di tutti i sostenitori repubblicani, fino all’inizio di novembre trovava però poco conforto in uno degli indicatori che di solito vengono considerati più affidabili alla vigilia delle elezioni di mid-term. Parliamo dei sondaggi sul “generic congressional vote”, che mettono a confronto democratici e repubblicani a livello nazionale, a prescidere dai singoli candidati. In questo tipo di ricerche i democratici godono di un leggero vantaggio strutturale. Ma questo vantaggio – prima di un’onda repubblicana di un certo rilievo – tende storicamente a scomparire. Quest’anno, invece, nella media dei sondaggi i democratici hanno mantenuto un margine dell’1-2% per gran parte della primavera e per tutta l’estate. E questo fatto, insieme alla coriacea resistenza di alcuni incumbent democratici in stati “rossi” come l’Alaska, la Louisiana o l’Arkansas, ha spinto molti analisti a prevedere una “status quo election” scartando l’ipotesi della “wave election”.

Il Gop, per la verità, potrebbe essere in grado di conquistare la maggioranza al Senato anche senza un’onda di “notevoli dimensioni”. Ma a semplificare (almeno in teoria) la vita dei meteorologi, all’inizio di settembre sono iniziati ad arrivare sondaggi nazionali che registrano il sorpasso dei repubblicani ai danni dei democratici. Oggi la media di Real Clear Politics vede il Gop in vantaggio di 3 punti percentuali. Non siamo al livello del 2010, ma la tendenza delle ultime settimane sembrerebbe piuttosto chiara.

Eppure, malgrado l’impopolarità di Obama, la solidità complessiva dei suoi candidati, i precedenti storici e il terreno favorevole in cui si gioca la partita delle mid-term, il Partito repubblicano sembra ancora stentare a decollare. E la situazione resta più fluida di quanto dovrebbe essere, viste le circostanze. «Non è difficile pensare – scrive uno sconsolato Jay Cost – che il Gop stia solo barcollando (il termine utilizzato è “slouch”) verso la maggioranza al Senato». Quello che manca ai repubblicani, secondo Cost, è la “raison d’être”, la motivazione profonda che dovrebbe «spingere gli elettori a votare repubblicano, dopo che hanno esitato a farlo per quasi un decennio».

Riuscirà, il Gop, a trovare questa identità prima di novembre? O basterà, al partito dell’elefante, “barcollare” verso la vittoria? Lo scopriremo nei giorni che ci separano dal primo martedì di novembre, analizzando in dettaglio le campagne elettorali per la Camera, i Governatori e il Senato.

(1/continua)

© Il Foglio, dall’edizione del 3 ottobre 2014

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