USA 2014. 5) The Final Countdown

© Il Foglio, dall’edizione del 4 novembre 2014
cartina-finale---3-novembre---ore15«I numeri continuano a muoversi verso il Partito repubblicano. Ma più che all’arrivo di un’onda, sembra di assistere a una lentissima deriva». Con questa metafora vagamente geologica, Scott Elliot di “Election Projection” commentava – una settimana fa – gli ultimi sondaggi sul Senato. Confermando una sensazione molto diffusa tra gli analisti: il Gop è favorito, ma ci sono ancora troppe corse in bilico per poter scommettere su un esito certo delle elezioni di mezzo termine. Oggi, nel giorno del voto, la situazione non è cambiata.

Fino all’ultimo momento i numeri hanno continuato a muoversi, quasi impercettibilmente, nella direzione dei repubblicani. Ma ci sono almeno cinque stati in cui il distacco tra i due sfidanti è ampiamente all’interno del margine d’errore statistico dei sondaggi. E un altro paio che potrebbero ancora riservare sorprese. Sullo sfondo di questa incertezza ormai cronica, poi, aleggia la possibilità – per niente remota – che a decidere la partita possano essere le corse di Louisiana e Georgia, che probabilmente dovranno ricorrere al ballottaggio, rispettivamente a dicembre e gennaio, per scegliere i propri senatori.

Neanche il voto di oggi, insomma, potrebbe essere sufficiente per sciogliere quel nodo di indeterminatezza che ha accompagnato la campagna elettorale fin dal principio. Perfino in questo oceano di dubbi, però, qualche certezza non manca. Proviamo a partire proprio da queste.

Presidential Burden

Certezza numero uno: se i democratici dovessero riuscire a contenere le perdite, magari conservando per un soffio il controllo del Senato, non dovrebbero scomodarsi per ringraziare Barack Obama.

«Barack Obama è stato eletto in un impeto di energia ed entusiasmo, ma potrebbe lasciare il Partito democratico in condizioni peggiori di quelle in cui versava prima che il presidente arrivasse alla Casa Bianca». L’osservazione di Nathan Gonzales del Rothenberg Political Report non è affatto sconvolgente, ma sottolinea una realtà troppo spesso dimenticata. E non si tratta di opinioni, ma di numeri.

Alla fine delle primarie democratiche vinte da Obama contro Hillary Clinton, nell’agosto del 2008, i democratici controllavano 236 seggi alla Camera, 51 al Senato e 28 governatori. Con la vittoria alle Presidenziali, i democratici sono arrivati a 257 seggi alla Camera, 59 al Senato e 29 governatori. Dopo il voto di oggi, il Partito democratico potrebbe contare su poco più di 190 seggi alla Camera, 48/49 al Senato e 20/21 governatori. Meno, molto meno, che nell’estate del 2008.

Non sempre il consenso di Obama si è trasferito automaticamente ai candidati democratici di Camera e Senato. Ma oggi, con la popolarità che si è trasformata in impopolarità, l’effetto di trascinamento rischia di diventare contagioso ad ogni livello. Da una parte c’è lo scollamento tra la macchina da guerra obamiana e gli strateghi del partito, che viene da lontano ma che negli ultimi mesi è diventato ormai lampante (e pubblico). «L’inettitudine della Casa Bianca è passata dal fastidioso all’imbarazzante», ha dichiarato nei giorni scorsi al National Journal un (anonimo) assistente di un senatore democratico, dopo che – nel comunicato preparato dall’ufficio stampa dell’amministrazione per la visita di Michelle Obama in Iowa – il candidato al Senato, Bruce Braley, è magicamente diventato il «candidato alla poltrona di governatore, Bruce Bailey».

Dall’altra parte c’è, appunto, il disastroso “job approval” del presidente, che continua a oscillare tra il 41 e il 42 per cento ed è in saldo negativo ormai dalla primavera dello scorso anno, senza aver mai mostrato cenni di recupero. I numeri di Obama negli stati ancora in bilico al Senato, poi, sono anche peggiori rispetto alla media nazionale.

Dal novembre del 2012 ad oggi, in Iowa, il gradimento del presidente nell’elettorato femminile è passato da un saldo positivo del 14 per cento (54/40) a uno negativo del 13 per cento (40/53). In North Carolina, la fiducia in Obama tra i giovani (18-29 anni) è crollata dal +50 per cento (70/20) al -4 per cento (40/44). In Colorado, il sostegno della popolazione ispanica nei confronti del presidente è passato da un solido +32 per cento (64/32) ad un anemico +9 per cento (51/42).

La coalizione che ha eletto (e poi rieletto) Obama, insomma, quella formata da neri, latinos, giovani e donne (soprattutto non sposate), sembra avere abbandonato in massa il presidente. Mettendo in grave difficoltà il Partito democratico in questo ciclo elettorale.

Red House

Certezza numero due: la maggioranza repubblicana alla Camera non è a rischio.

Anche se è trascorso appena un anno, i giorni dello shutdown a Washington, con il Partito repubblicano ai minimi storici nei sondaggi e i democratici convinti di poter veleggiare comodamente verso la riconquista della Camera, sembrano ormai appartenere a un’altra epoca. Il Partito democratico dovrebbe guadagnare 17 seggi per riuscire nell’impresa, ma tutti gli analisti prevedono il contrario. E i bookmaker hanno smesso, da tempo, di accettare scommesse a favore del Gop.

Larry Sabato, nella sua Crystal Ball, prevede un saldo positivo di 9 seggi a favore del Gop. Si tratta degli stessi numeri ipotizzati dall’Election Lab del Washington Post e, più o meno, dal Rothenberg Political Report, secondo cui i repubblicani guadagneranno tra i 5 e i 12 seggi (la media è 8,5).

La maggioranza repubblicana (oggi 234-201), dovrebbe dunque attestarsi su un  livello molto vicino a quello raggiunto dopo lo straordinario successo del 2010 (242-193), che rappresenta una sorta di “tetto” strutturale per il Gop di oggi. In un quadro politico polarizzato come quello attuale, i repubblicani – molto semplicemente – non possono sperare di andare molto oltre.

Lo stallo tra i Governatori

Certezza numero tre: i rapporti di forza tra i governatori non sono destinati a cambiare di molto. Anzi, forse non cambieranno affatto.

Molte delle speranze democratiche, durante questa campagna elettorale, si sono concentrate sulle battaglie per le poltrone di governatore. E anche Obama, praticamente assente (perché ospite indesiderato) negli stati-chiave del Senato, si è speso molto per spingere gli incumbent a rischio e i candidati più competitivi negli stati “viola”.

Tanto sforzo, però, alla fine non sembra aver pagato. I democratici, infatti, dovrebbero riuscire a strappare ai repubblicani i governatori di Pennsylvania (molto probabile), Kansas (probabile) e Florida (possibile). E potrebbero aggiungere al loro pallottoliere anche l’Alaska, dove hanno scelto di puntare sull’indipendente Bill Walker. Ma rischiano di vedere le loro vittorie annullate da altrettante sconfitte in Colorado e Connecticut (possibile),  Massachusetts (probabile) e Arkansas (molto probabile). Una vittoria del Gop in Massachusetts, poi, sarebbe davvero clamorosa, dopo che la candidata democratica Martha Coakley – nel 2010 – era già riuscita a regalare al repubblicano Scott Brown il seggio del Senato occupato da Ted Kennedy per quasi mezzo secolo.

Particolarmente importante, per il Gop, sarebbe la conferma di Scott Walker in Wisconsin. Il governatore, sopravvissuto al recall del 2012, deve affrontare un’avversaria pericolosa come Mary Burke, che ha condotto una campagna elettorale “centrista”, abbandonando l’estremismo sindacalista che – almeno recentemente  – aveva portato solo sconfitte ai democratici del Badger State. Walker è considerato uno dei pochi repubblicani, in vista del 2016, gradito sia alla base movimentista che all’establishment del partito, ma per puntare alla Casa Bianca deve prima vincere in Wisconsin. La corsa è ancora incertissima – e molto dipenderà dal turn-out – ma negli ultimi sondaggi Walker sembra leggermente davanti. E una sua affermazione potrebbe trasformare un sostanziale pareggio a livello nazionale in una vittoria, di fatto, per il Gop.

Le (quasi) certezze del Senato

Certezza numero quattro: al Senato non ci sono (quasi) certezze.

Al momento i democratici possono contare su una maggioranza di 53 seggi (più 2 “indipendenti” che votano insieme a loro) contro i 45 repubblicani. Oggi si vota per eleggere 33 senatori (su 100). E in altri tre stati (Hawaii, South Carolina e Oklahoma)  ci sono elezioni speciali per assegnare seggi lasciati vacanti durante la legislatura. Per raggiungere quota 51 e garantirsi la maggioranza, in queste 36 sfide il Gop deve ottenere un saldo positivo di almeno 6 seggi (in caso di parità il voto decisivo spetterebbe al vicepresidente Joe Biden).

Escludendo gli stati non interessati al voto, il punteggio di partenza è di 34-30 per i democratici. Gli stati considerati “non competitivi dagli analisti sono Delaware, Massachusetts, Rhode Island e Hawaii per i democratici; Alabama, Idaho, Maine, Montana, Nebraska, Tennessee, Texas e Wyoming, oltre a due seggi in Oklahoma e due in South Carolina, per i repubblicani. Il punteggio diventa 42-38 per il Gop (con un pick-up, quello del Montana, sui 6 necessari).

Contando anche gli stati teoricamente competitivi, ma in cui uno dei due partiti è nettamente favorito sull’altro – Illinois, Michigan, Minnesota, New Jersey, New Mexico, Oregon e Virginia per i democratici; Mississippi, South Dakota e West Virginia per i repubblicani – si arriva al 45-45. Con il Gop che ha già portato a casa 3 pick-up su 6 (Montana, West Virginia e South Dakota).

Nella scorsa puntata di questa serie di articoli sulle midterm, avevamo identificato i dieci stati rimanenti – sette democratici e tre repubblicani – come toss-up. E per ottenenere la maggioranza al Senato, il Gop deve ottenere un saldo di +3 in questi dieci stati, per esempio strappandone tre ai democratici, senza perderne nessuno. Ma come è cambiata la situazione in queste ultime settimane?

I numeri, come abbiamo già accennato, hanno continuato a muoversi verso il Partito repubblicano, senza però mai accelerare troppo. Le notizie migliori, per il Gop, arrivano dall’Arkansas – dove nella media dei sondaggi Tom Cotton ormai viaggia con circa 7 punti percentuali di vantaggio sull’incumbent democratico Mark Pryor – e dal Kentucky, dove il leader della minoranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, a lungo considerato a rischio, è finito davanti alla sfidante Alison Grimes in 18 degli ultimi 20 sondaggi e può ormai contare su un margine intorno al 6 per cento.

I repubblicani sono davanti, piuttosto nettamente, anche in Colorado, dove l’incumbent democratico Mark Udall non sembra essere riuscito a ridurre lo svantaggio nei confronti di Cory Gardner. Il distacco è ancora inferiore al 4 per cento – e quindi molto vicino al margine d’errore statistico dei sondaggi – ma l’inaspettato endorsement del Denver Post a favore del candidato repubblicano e il vantaggio accumulato dal Gop nell’early voting ci spingono a considerare Gardner come leggermente favorito.

Superiore ai 4 punti è invece il vantaggio di Bill Cassidy in Louisiana nel caso, ormai praticamente certo, di un run-off (fissato per il 6 dicembre) contro l’incumbent democratica Mary Landrieu in Louisiana. Per restare al suo posto nel 114° Congresso, l’unica speranza della Landrieu è quella di raggiungere il 50 per cento già oggi, in una “jungle primary” in cui tutti i candidati possono correre contro il senatore uscente. Ma si tratta di un’eventualità davvero remota. E al ballottaggio del mese prossimo il favorito d’obbligo, in un Bayou State che sta diventando sempre più “rosso”, è il repubblicano Cassidy.

Strappando ai democratici Arkansas, Colorado e Louisiana – e difendendo con successo il Kentucky – il Gop arriverebbe al 49-45, con già in tasca i 6 pick-up necessari per conquistare la maggioranza al Senato. Ma è negli altri stati che mancano all’appello – quattro democratici e due repubblicani – che le cose iniziano a diventare complicate.

Chaos Theory

In due stati, New Hampshire e North Carolina, gli incumbent democratici sembrano essere in grado di resistere all’assalto repubblicano. In New Hampshire la rimonta di Scott Brown nei confronti di Jeanne Shaneen è ancora statisticamente possibile, ma pare essersi interrotta proprio sul filo di lana. E alla vigilia del voto la senatrice democratica conserva un margine di un paio di punti percentuali nella media dei sondaggi. In North Carolina la rincorsa di Thom Tillis nei confronti di Kay Hagan è stata ancora più affannosa, ma ha portato il candidato repubblicano davvero a ridosso dell’incumbent. In questo caso l’early voting sembra però favorire i democratici, che si sono concentrati soprattutto nel turn-out anticipato della numerosa comunità afroamericana.

Assegnando ai democratici (anche se con qualche dubbio) New Hampshire e North Carolina, arriviamo al 49-47 a favore del Gop. E qui entriamo nel caos più completo.

Dei quattro stati ancora in sospeso, sbarazziamoci immediatamente della Georgia. Nel seggio del Peach State lasciato “open” dal repubblicano Saxby Chambliss, l’esito della sfida tra David Perdue e la democratica Michelle Nunn sarà, con ogni probabilità, noto soltanto a gennaio (dopo l’inaugurazione del nuovo Congresso). Perdue, a lungo in testa durante la campagna elettorale, si è visto raggiungere dalla Nunn verso la metà di ottobre, ma nelle ultime settimane è tornato leggermente davanti nei sondaggi. Nessuno dei due candidati, comunque, è vicino al 50 per cento necessario per evitare il ballottaggio.

Per scongiurare possibili sorprese a gennaio, il Gop ha comunque bisogno di incastrare altri due pezzi di questo complicato puzzle. Prima di tutto deve difendere con successo il seggio di Pat Roberts in Kansas. Operazione non impossibile, ma neppure semplice, visto che l’impetuosa rimonta di Roberts nei confronti dell’indipendente Greg Orman è entrata, ormai da qualche settimana, in una fase di stallo. Tra i modelli di previsione statistica, solo quello del Princeton Election Consortium si sbilancia, assegnando il 72 per cento di probabilità di vittoria a Orman. Tutti gli altri sono molto più cauti. E anche gli analisti storici si rifugiano nel toss-up. Con ogni probabilità, la corsa si deciderà al fotofinish.

Oltre a difendere Roberts in Kansas, i repubblicani – per svegliarsi con il sorriso sulle labbra già il 5 novembre – devono vincere in Iowa o in Alaska (o in entrambi gli stati, in caso di sconfitta in Kansas). I candidati del Gop sono in leggero vantaggio, ma con distacchi abbondantemente all’interno del margine d’errore statistico.

In Alaska il repubblicano Dan Sullivan è davanti all’incumbent Mark Begich di un paio di punti percentuali. Ma Begich confida molto nelle operazioni di “gotv” (get out the vote) su cui il Partito democratico ha investito cifre astronomiche. Con una spesa di 36 milioni di dollari (120 dollari per ogni elettore), i democratici hanno messo in piedi un’organizzazione colossale, dieci volte più grande di quella su cui possono contare gli avversari, che si affidano invece alla tradizione repubblicana dello stato.

L’ultimo stato da prendere in considerazione è l’Iowa. Anche in questo caso la repubblicana Joni Ernst è leggermente davanti al democratico Bruce Braley, ma l’estrema imprevedibilità dell’Hawkeye State e le differenze – anche vistose – tra un sondaggio e l’altro rendono davvero difficile un pronostico troppo sfrontato. Vantaggio Gop, ma molto fragile.

Gli stati da tenere d’occhio

In assenza di verità assolute, con gli analisti che si rifugiano sempre più spesso nel toss-up, non resta che affidarsi ai modelli di previsione basati sulle probabilità statistiche. Anche in questo caso, nelle ultime settimane i numeri si  sono mossi leggermente verso il Gop, a cui viene assegnata una probabilità di conquistare la maggioranza al Senato che oscilla tra il 64 per cento del Princeton Election Consortium e il 96 per cento del Washington Post, con un range – quello tra il 70 e il 75 per cento – che vede convergere New York Times, Daily Kos, Pollster e FiveThirtyEight. I bookmaker di Betfair, infine, pagano una scommessa sulla vittoria repubblicana 1,22 volte la posta: cioè credono che l’evento abbia l’82 per cento di probabilità di avverarsi.

Come sempre, però, alla fine di ogni campagna elettorale l’unica cosa che conta davvero sono i voti reali. Nate Silver di FiveThirtyEight consiglia di seguire con attenzione soprattutto lo spoglio delle schede in Iowa, Kansas e Alaska. Ma le operazioni di scrutinio, in Alaska, non inizieranno prima delle 7 di domattina (ora italiana). E forse, almeno questa volta, sarà utile seguire il consiglio di Sam Wang del Princeton Election Consortium, che proprio con Silver si è scontrato più di una volta in questi mesi. Secondo Wang i due stati da tenere d’occhio sono Kentucky e New Hampshire, in cui i seggi chiudono rispettivamente a mezzanotte e all’una (sempre ora italiana).

Se in Kentucky, spiega Wang, il repubblicano McConnell vincesse con più di 8 punti di vantaggio, sarebbe il segnale di una splendida notte per il Gop. Se, invece, il margine di vittoria repubblicano fosse inferiore al 4 per cento, questo significherebbe che i democratici stanno andando meglio di quanto registrato finora dai sondaggi. Il New Hampshire può rappresentare una sorta di variabile di controllo rispetto a questa prima indicazione. Se nel Granite State, che tradizionalmente conta in fretta i suoi voti, Jeanne Shaheen vincesse con più di 5 punti di vantaggio, saremmo di fronte a un ottimo segnale per i democratici. Se questo margine fosse invece inferiore all’1 per cento – o se addirittura si imponesse Scott Brown – allora i repubblicani potrebbero iniziare, con qualche ora d’anticipo, a festeggiare una larga vittoria.

(5/fine)

© Il Foglio, dall’edizione del 4 novembre 2014

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