Mitt Unplugged

Diciassette minuti per smontare una campagna elettorale fondata sulle bugie, sull’odio, sul rancore. Poco più di un quarto d’ora per cancellare, con intelligenza e razionalità, l’idea che Donald Trump possa anche solo per un momento rappresentare il sogno americano che vorrebbe incarnare. Non è un imprenditore di successo, non è un politico capace, non è una persona seria. Mitt Romney ci impiega molto poco a liquidare l’ultimo anno di campagna di The Donald e a rimettere in ordine le cose secondo il loro valore.

Giganteggia, se paragonato agli attuali inquilini dello stage repubblicano. Lo fa per il tono, presidenziale ma mai arrogante, per i contenuti puntuali e per le argomentazioni logiche e capaci di arrivare dritte al cuore della pancia del partito. Nemesi che ha dell’incredibile, questa, perché Mitt è sempre stato considerato figlio di logiche vicine all’establishment e lontano dalle radici del movimento conservatore. Eppure tocca a lui rimettere Reagan là dove Reagan dovrebbe stare, all’inizio di ogni discorso serio sulla politica americana. E per farlo cita la pietra fondante del fusionismo reaganiano: non le due campagne elettorali vinte, non otto anni di crescita economica alla Casa Bianca, non un’agenda di governo. Ma un discorso splendido, “A Time for Choosing”, che oggi sa un po’ di monito e un po’ di nuovo inizio. Quel giorno Ronald fondò il Partito Repubblicano che abbiamo conosciuto sin qui, ieri Mitt ha provato a salvarne l’eredità e a gettare le basi per costruire il movimento conservatore del futuro.

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