Il futuro della Nasa? È fantascienza

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Dal diario di Robert H. Goddard: «17 marzo, 1926. Il primo volo di un razzo alimentato da propellente liquido si è svolto ieri alla fattoria di Zia Effie a Auburn, in Massachusetts. Il razzo non è partito immediatamente, ma una grande quantità di fiamme ha dato vita a un ruggito sordo e insistente. Dopo qualche secondo, il razzo ha cominciato a salire verso l’alto, lentamente, fino a quando l’accelerazione non lo ha spinto a piegarsi verso sinistra, precipitando nella neve».

Il razzo costruito da Goddard – ingegnere, inventore, fisico e pioniere della missilistica moderna – si chiamava “Nell” e riuscì a volare soltanto per una manciata di secondi, raggiungendo i 12 metri di altezza prima di schiantarsi in un campo di cavoli a una cinquantina di metri dalla rampa di lancio. Il test compiuto nella fattoria di Zia Effie, poi diventata monumento nazionale, fu però la prima dimostrazione che i razzi a propellente liquido potevano funzionare. E ancora oggi, a novant’anni da quell’esperimento, i viaggi dell’uomo nello spazio sono resi possibili dallo stesso tipo di combustibile utilizzato da Goddard per il suo test (in genere una miscela tra un carburante liquido e un ossidante liquido, come idrogeno o ossigeno). Tutto questo, però, potrebbe cambiare molto presto.

Proprio come Goddard – che cominciò ad immaginare un metodo per “spingere” l’uomo fuori dall’atmosfera dopo aver letto, a sedici anni, “La Guerra dei mondi” di H.G. Wells – gli scienziati continuano ad affidarsi alla letteratura fantascientifica come fonte di ispirazione per le loro ricerche. L’ultimo numero della rivista “Cosmos Magazine”  indaga in profondità sulla strategia della Nasa per spingere l’esplorazione spaziale fino ai limiti del sistema solare (e oltre), scoprendo che, insieme al perfezionamento di alcuni metodi già sperimentati in passato (razzi chimici, motori elettrotermici e propulsori ionici), gli ingegneri della National Aeronautics and Space Administration stanno inseguendo gli sviluppi di tecnologie che sembrano uscire direttamente dalle pagine di un romanzo di fantascienza.

Durante un convegno che si è svolto a febbraio all’American Astronautical Society, l’ingegnere della Nasa Ronald Litchford ha elaborato una sorta di “Top 10” delle tecnologie più promettenti. E anche prendendo in considerazione i metodi di propulsione più “normali”, la sensazione è quella di precipitare vertiginosamente verso il futuro. I razzi chimici, per esempio, secondo Litchford potrebbero alimentarsi direttamente sui pianeti di destinazione, invece di trasportare enormi quantità di carburante fin dalla partenza sulla Terra: su Marte, sarebbe possibile estrarre l’idrogeno e l’ossigeno necessari per il propellente direttamente dal ghiaccio della calotta polare.

Ma il vero balzo nella fantascienza arriva quando gli scienziati della Nasa iniziano a parlare di tecnologie ancora poco utilizzate. Ci sono le “vele solari” (chiamate anche “vele fotoniche”), che sfruttano la “pressione di radiazione” dei fotoni per raggiungere velocità impensabili, permettendo in teoria alle astronavi di viaggiare senza alcun tipo di carburante. Il concetto di “vela solare”, proposto per la prima volta da Keplero nel XVII secolo, è tornato alla ribalta negli Anni Sessanta, grazie allo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke (il creatore di “2001 Odissea nello spazio”). E nel maggio del 2010 una “vela solare” ha spinto la sonda giapponese Ikaros fino a Venere. Per viaggi lontani dal Sole (in cui la spinta disponibile è destinata a scendere di intensità), alla Nasa già ipotizzano di utilizzare un gigantesco laser per “spingere” le astronavi verso le stelle.

Poi ci sono i “motori al plasma”, che sfruttano masse gassose ionizzate (il plasma) accelerate da campi magnetici. I motori al plasma si basano su un’idea di cinquant’anni fa – molto sfruttata nella fantascienza – ma una società texana (Ad Astra Company) ne ha appena costruito un modello capace, dicono, di far arrivare un’astronave su Marte in 39 giorni. E ancora: la Nasa sembra puntare molto sui motori a “fissione termica” (quasi pronti negli Anni Settanta ma bloccati dall’Amministrazione Nixon), sulla “propulsione nucleare ad impulso” e sulla “miniaturizzazione delle astronavi” (nel 2009 alcuni ricercatori della University of Michigan hanno sviluppato un “nanomotore” che è possibile stampare su un chip di silicio).

In fondo alla “Top 10” della Nasa, anche se non certo ultima per vicinanza ai paradigmi della fantascienza, c’è l’Antimateria, lo stesso propellente utilizzato dall’astronave Enterprise fin dalla prima serie di “Star Trek” (1966-1969). L’antimateria possiede la densità di energia più elevata di qualsiasi altra sostanza e, se usata come carburante, potrebbe alimentare il più efficiente dei sistemi di propulsione, trasformando in spinta il 40% della propria massa (il secondo metodo più efficiente, la fusione, si ferma all’1%). Nel 2006 il Niac – l’istituto per “concetti avanzati” della Nasa – ha calcolato che un centesimo di grammo di antimateria sarebbe sufficiente per mandare un’astronave su Marte in 45 giorni. Il problema, paradossalmente, è che un centesimo di grammo è una quantità gigantesca di antimateria, visto che tutta quella creata fino ad oggi negli acceleratori di particelle non sarebbe sufficiente neppure per scaldare una tazza di tè. A meno di non scoprire una fonte affidabile di questo “supercarburante”, insomma, i motori ad antimateria sono costretti a restare confinati nel regno della fantasia. Per ora.

Una versione leggermente ridotta di questo articolo è stata pubblicata oggi su “Il Giornale”

 

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