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Trump 2020: perché no

Premessa: penso che allo stato attuale delle cose, Donald Trump abbia molte più possibilità di vincere le elezioni presidenziali di quante ne avesse allo stesso punto della campagna elettorale del 2016. Il fatto, per me, è di per sé eccezionale e dimostra una volta ancora quanto certe campagne condotte con pervicacia da alcune élite autoreferenziali spingano i popoli ad atti di ribellione senza precedenti. Vorrei, però, rompere il mio quadriennale silenzio sulle cose americane (quando non si capisce un fenomeno, come è capitato a me con Trump, ci si ferma e si torna a studiare) per dire che oggi sono ancora più convinto di allora che Trump sia il presidente sbagliato per gli Stati Uniti e un’opzione politica molto pericolosa per il Partito Repubblicano.

La retorica per cui il GOP sarebbe il partito di Lincoln e non potrebbe permettersi di farsi rappresentare da The Donald è, con tutta evidenza, scentrata. I Never Trumpers americani (e pure quelli europei) dovrebbero smetterla di richiamarsi a un’esperienza politica, quella di Lincoln, che è patrimonio condiviso di tutto il popolo americano e che non fa altro che farli apparire come un élite completamente distaccata dalla realtà e costretta a tornare a Gettysburg per ritrovare qualcosa da dire.

C’è un motivo molto più concreto per cui Donald Trump non dovrebbe essere il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. Il GOP non può più essere definito come il partito di Lincoln ma potrebbe (dovrebbe) essere raccontato attraverso le sue migliori esperienze culturali e di governo. I Repubblicani sono (erano) il partito di George W. Bush, di Scott Walker governatore del Wisconsin, di Jeb Bush governatore della Florida, di Rick Snyder in Michigan, di Susana Martinez in New Mexico, di Tim Pawlenty in Minnesota. Sono stati il movimento che ha espresso lo speaker della Camera Paul Ryan, senatori autorevoli come Marco Rubio, Jeff Flake, Rob Portman, Ben Sasse. Tutte figure che oggi, nella migliore delle ipotesi, sono ai margini del dibattito interno al GOP. Così come non si vedono né si sentono più le voci autorevoli di Condoleeza Rice, John Bolton e James Mattis. Per trovare un candidato presidente che non si opponga a Trump bisogna ricorrere a Bob Dole, che, dopo l’endorsement del 2016, non ha praticamente più parlato, probabilmente per le sue precarie condizioni di salute. Trump ha variamente insultato tutti gli ultimi candidati alla presidenza espressi dal suo partito: Mitt Romney in varie occasioni, John McCain con frasi inqualificabili e George W. Bush durante le primarie.

L’establishment repubblicano ha, chiaramente, più di una responsabilità per quello che è successo ma la domanda da porsi oggi è: questo è il Partito Repubblicano che abbiamo conosciuto e apprezzato fino al 2016 o un semplice cartello elettorale in funzione anti-Dem, disposto a qualsiasi cosa pur di tenersi il potere?

Ricomincio ad occuparmi di cose americane con il giusto disincanto: comunque vada, culturalmente, per me queste elezioni sono perse. Sono un fusionista, non voglio un partito modellato acriticamente sulla mia idea di conservatorismo compassionevole ma ho sempre pensato che il partito repubblicano fosse un meraviglioso patchwork di esperienze a cui ispirarsi anche per costruire una moderna destra europea. Oggi la Big Tent reaganiana è diventata una verticalissima Trump Tower e l’unico fusionismo praticabile è quello tra le diverse anime della famiglia Trump, come testimonia amaramente l’ultima convention di Charlotte. Un po’ troppo poco per farmi innamorare di nuovo.

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