Trump 2020: perché sì Set06

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Trump 2020: perché sì

Premessa: a differenza di Simone, io non sono affatto convinto che Donald Trump sia il favorito alle Presidenziali Usa di novembre. Sono un po’ meno pessimista di qualche mese fa, ma in linea di massima gli concedo una possibilità di vittoria su tre: qualche punto percentuale in più rispetto al modello elaborato da Nate Silver per FiveThirtyEight. Vista la mia (disastrosa, anche se non solitaria) performance predittiva del 2016, questo può essere interpretato come un buon segno dai trumpiani di tutto il pianeta.

Io, però, trumpiano non lo sono mai stato. Troppi dubbi sul suo passato politico, troppe incertezze sulle sue posizioni sul libero scambio, troppo fastidio per le sue critiche all’impegno statunitense nel Medio Oriente post-9/11, troppa rabbia per la sua cattiveria nei confronti dei rivali del GOP alle primarie 2016. Eppure, proprio come nel 2016, messo di fronte all’alternativa binaria delle elezioni presidenziali, non avrei esitazione nel votare per lui.

Visto che un’atroce beffa del destino mi ha fatto nascere nel Belpaese, però, posso solo limitarmi a tifare per la sua rielezione. Cercando di raccontare ai lettori di The Right Nation perché i Never Trumpers come Simone sbagliano a considerarlo come il “presidente sbagliato per gli Stati Uniti” e una “opzione politica molto pericolosa per il Partito Repubblicano”.

La cosa divertente è che sono in larga parte d’accordo con l’analisi di Simone, anche se poi arrivo a conclusioni diametralmente opposte. Anche io considero il “pacchetto di mischia” del GOP nel 2016 come uno dei migliori mai espressi da un partito statunitense alle primarie. Da buon sostenitore dell’ex governatore del Wisconsin, Scott Walker, avrei desiderato una “coalizione dei migliori” (Rubio, Cruz, lo stesso Walker) capace di impedirne la nomination. Ma le migliori menti repubblicane hanno preferito pensare ai propri interessi, invece che a quelli del partito e della nazione. E Trump ha vinto.

A quel punto, l’unico vero buon motivo per votare Trump si sarebbe potuto riassumere in una sola parola. Hillary. Ma era un motivo ampiamente sufficiente. E molti americani hanno dimostrato di pensarla esattamente come me.

Nel 2020, però, è tutta un’altra storia. Forse anche a causa delle mie aspettative, molto modeste, il Trump presidente – con tutti i suoi evidenti limiti caratteriali – mi ha piacevolmente sorpreso. Manca ancora qualcosa (Obamacare e libero scambio prima di tutto), ma la lista dei “pro” è nettamente più lunga di quella dei “contro”: gigantesco taglio alle tasse, incrollabile difesa di Israele (Gerusalemme!), fermo atteggiamento “pro-life”, dure (e giuste) prese di posizione nella culture war, individuazione (senza se e senza ma) del pericolo cinese.

Basta tutto questo per augurarsi la sua rielezione a novembre? Forse. Ma a far pendere decisamente dalla sua parte l’ago della bilancia è, ancora una volta, quello che Trump ha contro. Non tanto Mitt Romney (in buona fede, secondo me) o John Kasich (patetico, sempre secondo me), che farebbero meglio a combattere per l’anima del GOP nelle sedi più opportune, invece che in televisione o alla convention democratica. Parlo invece di quella marmaglia paleo-marxista, politicamente corretta e violenta che sciama per le strade delle città statunitensi incendiando tutto quello che trova sul proprio cammino e bullizzando tutti quelli che non la pensano esattamente come loro (liberal compresi). Parlo di un sistema dei mainstream media che ha raggiunto livelli di partigianeria e falsità senza precedenti nella storia delle democrazie. Parlo di un sistema di istruzione superiore ormai in mano a un manipolo di truffatori di professione, che riesumano teorie seppellite dalla scienza e dalla storia per ingannare le nuove generazioni e garantirsi il dominio eterno delle istituzioni universitarie. Parlo di un partito (quello democratico) da tempo avvelenato dall’odio politico e dall’estremismo più infantile. Parlo di una classe “intellettuale” – tra mille virgolette – che predica e pratica un antiamericanismo aggressivo e che si distingue (come si è sempre distinta) nella difesa ad oltranza delle dittature più feroci.

Sleepy Joe e Kamala Harris rappresentano soltanto la punta dell’iceberg. E non si tratta neppure di un’avanguardia particolarmente brillante. Un anziano politicante particolarmente versato nelle gaffe e nei contatti inappropriati con il sesso opposto, in chiara fase di decadimento cerebrale. Un’estremista di San Francisco il cui unico pregio è un colore della pelle abbastanza misto da poter soddisfare almeno un paio di componenti etniche del partito. È davvero questo il meglio che la “resistenza” può offrire all’America dopo quattro anni di Trump?

Perdonatemi, ma io mi tengo il “puzzone”.

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