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Il Cowboy e noi
Quando Ronald Reagan annunciò di correre per le primarie presidenziali era il 13 novembre del 1979. Il 20 maggio 1980, dopo aver vinto il Michigan e l’Oregon, Reagan fu certo di essersi assicurato la nomination repubblicana, che gli fu ufficialmente confermata dai delegati il 17 luglio 1980 nella convention tenutasi a Detroit: il giorno prima Reagan aveva scelto il suo principale opponente repubblicano nelle primarie, George H. Bush, come candidato Vice Presidente.
Prima dell’unico dibattito tenuto il 28 ottobre 1979 con il candidato democratico nonché Presidente uscente, Jimmy Carter, Reagan era sotto di 8 punti percentuali nei sondaggi: l’esito del dibattito fu talmentechiaro che le elezioni del 4 novembre videro il 50,7% dei voti per Reagan e il 41% per Carter (44 Stati contro 6, Minnesota primo stato blu partendo dal Pacifico in mezzo ad una marea rossa), col Senato tornato in mano al GOP dopo 28 anni di dominio democratico. Ronald Reagan giurò come quarantesimo Presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 1981.
Dalla prima all’ultima data citata in questa breve premessa passano 14 mesi. In questo periodo in Italia si avvicendano due legislature e tre diversi Governi con tre diverse maggioranze e due differenti Presidenti del Consiglio. Otto anni esatti, invece, separanoquando Reagan entra alla Casa Bianca il 20 gennaio 1981 da quando saluta salendo per l’ultima volta sull’elicottero presidenziale con un favoloso rate approval del 63%: in questo periodo in Italia abbiamo tre legislature, nove Governi con quattro diverse maggioranze e soprattutto ben sei diversi Premier (diversi dai due in carica durante la campagna elettorale di Reagan sopra menzionata). Perché questo esercizio di statistica? Perché per capire i rapporti tra il Governo americano di Ronald Reagan e il potere italiano in carica durante i suoi otto anni bisogna comprendere sin da subito quale difficoltà abbia avuto the gipper a barcamenarsi nei confronti della politica italiana, considerando anche che nel frattempo in Francia ebbe come interlocutore il solo Mitterrand, in Gran Bretagna la sola Margaret Thatcher, in Germania Ovest il solo Helmut Kohl (salvo un annetto di Schmidt) e persino nella difficile Spagna degli anni ’80 il suo interlocutore per sette anni su otto fu uno solo, Felipe Gonzalez. Diciamo che l’unica grande potenza dell’epoca Reagan in cui l’interlocutore cambiò quattro volte fu quella nemica, l’Unione Sovietica, ma qui ai motivi endogeni si sommarono quelli esogeni dovuti proprio a Reagan e alla sua politica estera, che mise in difficoltà i sovietici fino alla fine della guerra fredda.
Noi, invece, facevamo tutto da soli. C’è da dire che se si paragonano gli schieramenti ideologici configurati nella politica americana con quelli presenti in Italia, in qualche modo Italia e Stati Uniti erano all’epoca dalla stessa parte. Nel senso che durante gli otto anni sia Reagan che chiunque fosse al Governo in Italia ebbero a che fare con un’opposizione di sinistra, con tutte le differenze che passavano tra il Partito Democratico americano e il PCI a quell’epoca. Ma le analogie, più o meno, finiscono qui. Non era infatti una completa analogia il fatto di stare entrambe sotto l’ombrello NATO: perché una delle due ci stava sbuffando e sparandosi contro, e con un piede in fuori; mentre l’altra di fatto ERA l’ombrello. E’ difficile predicare grandi consonanze tra un Paese che pagava di tasca propria per installare missili a difesa di un altro, e quest’ultimoche invece di ringraziare ne bruciava le bandiere e andava in piazza a protestare (senza peraltro averlo fatto quando i missili erano nemici e le venivano puntati contro). Non era un’analogia il fatto di professare le medesime politiche economiche: anzi, se negli Stati Uniti si mettevano le basi per una rivoluzione ideologica a favore del libero mercato e della riduzione del peso dello Stato, in Italia il debito schizzava alle stelle e ci si presentava come il Paese occidentale con la maggiore percentuale di economia statalizzata, i famosi panettoni di Stato.
Certo, le spese aumentarono in tutti e due i Paesi: ma in uno dei due lo fecero per difendere l’Occidente libero, sfidare l’URSS sul piano dell’innovazione coniugata alla difesa, e vincere la guerra fredda. E non c’è bisogno che spieghiamo quale dei due fosse. Ronald Reagan fu descritto da subito, e non solo dagli ambienti comunisti, come un cowboy scemo sempre sorridente e molto farlocco. In piena guerra contro lo strapotere culturale degli USA pop degli anni ’80, gli intellettuali italiani passarono otto anni a dire peste e corna del Presidente americano, mentre l’economia statunitense prendeva il volo e metteva le basi per una crescita globale che sarebbe durata trenta anni – la più lunga di sempre – trascinando con sé anche noi. Ignorando la straordinaria stagione di innovazione che prendeva piede proprio in quegli anni dall’altro capo dell’oceano, in particolare da quella California che Reagan aveva governato dal 1967 al 1974 (ma in Italia era venduto come un ex mediocre attore, e niente più), in Italia si contavano sulla punta delle dita coloro che descrivevano giustamente la rivoluzione Reaganiana: Antonio Martino ne analizzava i meriti sul giornale di Indro Montanelli, e ci potremmo più o meno anche fermare qui. Carmelo Palma giustamente asserisce che tratti del messaggio Reaganiano furono capiti e tradotti dai radicali di Marco Pannella: è vero, ma il tutto in bassa percentuale sulla proposta intera, e annegato in una miscela di terzomondismo, antiproibizionismo e radicalismo fricchettone a go gò che con Reagan davvero non c’entravano niente.
Qualcosina della personalizzazione della politica propria di Reagan ma in definitiva di tutto il sistema americano – anche se nessuno come lui aveva saputo parlare così bene contemporaneamente alla pancia e alla testa degli americani, dalle coste al midwest – era stata capita da Bettino Craxi, che però era pur sempre il Segretario del PSI: e tuttavia dalle carte ora pubblicate si avverte come, nel marasma della politica italiana, Reagan avesse intuito che alla fine di Craxi ci si poteva fidare, anche – ma diremmo soprattutto – dopo la famosa crisi di Sigonella. Maturando rispetto per l’anomala fermezza italica del caso, Reagan capì che quel carismatico personaggio che citava Garibaldi e voleva il presidenzialismo aveva qualcosa di diverso.
Ciò gli fu confermato dal decreto di San Valentino che fu, nelle relazioni industriali italiane, l’episodio più vicino (diciamo “il meno lontano”, meglio) a quando il Presidente americano, nell’interesse degli incolpevoli suoi connazionali (che ne approvarono incondizionatamente l’intervento), liquidò l’illegale e infame (si era di agosto, quando la gente viaggia più per ferie che per lavoro) sciopero a tempo indeterminato dei controllori di volo licenziandone più di 10.000 e sostituendoli con i loro colleghi militari, richiamando chi era in pensione e assumendone di nuovi. Era da poco in carica, Ronnie, e lì noi ci innamorammo definitivamente di lui – sentendoci dare dei fascisti, e sappiate che a 12 anni fa un certo effetto – mentre tutto intorno a noi lo si descriveva come un incrocio tra un pericoloso criminale e un vecchio rimbambito e sui nostri schermi trasmettevano Dallas, dando modo alle élite italiane di pensare che quel ranch di gente corrotta e inaffidabile fosse l’ambiente perfetto per un Presidente che appena poteva si faceva ritrarre col cappello da cowboy.