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Uno di Noi
“I have spent most of my life as a Democrat” – “per la maggior parte della mia vita sono stato un Democratico”. Comincia così il discorso “A time for choosing” che Ronald Reagan tenne nel 1964 (e che, per la prima volta nella storia delle elezioni presidenziali, venne trasmesso sulla NBC a pochi giorni dal voto) per sostenere la candidatura di Barry Goldwater alla Casa Bianca. Era un punto di partenza geniale: per convincere chi non la pensava come lui (ciò che più conta per vincere un’elezione) Reagan faceva innanzitutto presente di non essere “nato” repubblicano – e in effetti negli anni Quaranta era stato un democratico rooseveltiano, ed era stato a lungo il leader del sindacato degli attori ad Hollywood. In quel discorso, tenendo il quale l’ex attore 53enne inaugurava di fatto la sua vera e propria militanza politica, c’era già tutta l’essenza del reaganismo: il carisma straripante, la baldanza volutamente un po’ cowboy, l’abbandono di ogni residuo di isolazionismo perché quelli “che ci propongono di barattare la nostra libertà con il piatto di brodo del “welfare state” sono gli stessi che “ci hanno raccontato di avere una soluzione utopistica di pace senza vittoria”; ma soprattutto la straordinaria capacità di mostrarsi vicino alla gente comune, travalicando agilmente gli stessi steccati ideologici che al contempo la radicalità del messaggio contribuiva ad irrobustire. Reagan aveva scritto in faccia “sono uno di voi”, non solo agli occhi della base repubblicana ma anche di fronte agli elettori indipendenti e persino ad una bella fetta di quelli democratici.
Quell’anno il democratico Lyndon Johnson sbaragliò Goldwater lasciandogli appena sei Stati su cinquanta – il peggior risultato in assoluto nella storia delle elezioni presidenziali. Ma quella campagna elettorale gettò le dell’alleanza anticomunista tra la destra “religiosa” e i libertari antistatalisti che di fatto costituì la premessa della rimonta della quale si sarebbe reso protagonista, una generazione dopo, lo stesso Reagan. Il commentatore del Washington Post George Will ha riassunto il concetto meglio di chiunque altro: «Goldwater le vinse le elezioni del 1964. Solo che ci vollero sedici anni per contare i voti».
La vittoria di Reagan su Carter nel 1980 fu trionfale perché trascese ampiamente l’area repubblicana: in una competizione a tre (era in lizza anche l’ex repubblicano Anderson, candidatosi come indipendente), conquistò la presidenza facendosi votare anche dal 26% degli elettori democratici e dal 30% di quelli “indipendenti”. Lou Cannon, il più accreditato fra i suoi biografi, ricorda che alla vigilia della sua elezione un giornalista radiofonico gli chiese cosa l’America vedesse in lui, e lui, dopo un attimo di esitazione, rispose: “si mette a ridere se le dico che forse vedono loro stessi, vedono che sono uno di loro?”. Il suo discorso inaugurale per l’insediamento nel 1981 ( quello che contiene la celeberrima frase “nella crisi attuale il governo non è la soluzione al nostro problema: il governo è il problema”), confermò questa idea: viene giustamente ricordato come un peana contro l’oppressione fiscale e l’invadenza dello Stato, ma fu anche un’ode alla normalità della gente qualunque, agli “eroi che tutti i giorni entrano ed escono dalle fabbriche.. eroi dietro i banconi dei negozi… imprenditori che credono in se stessi e nelle proprie idee, in grado di produrre posti di lavoro, nuova ricchezza e opportunità”.
La sua popolarità crollò ben presto, complice la fase di recessione economica; e alle prime le elezioni parlamentari di mezzo termine, nel 1982, il partito del presidente venne bastonato: i neoletti democratici furono ben cinquantasette, mentre quelli repubblicani furono solo ventiquattro. Poi, nel secondo quadrimestre la recessione lasciò il passo ad una robusta e duratura ripresa economica; e quando nel 1984 Reagan si giocò la rielezione trionfò in 49 Stati su 50 (: lo sfidante democratico, Mondale, vinse solo in Minnesota, il suo stato di origine) riottenendo il 26% del voto democratico, esattamente lo stesso di quattro anni prima, e ben il 63% – più del doppio – di quello degli indipendenti. La sua seconda amministrazione rasentò nei sondaggi il 60% dei consensi nel suo momento peggiore, dopo lo scandalo Iran-Contras. Da allora, è divenuto usuale parlare di Raegan democrats (democratici reaganiani) per indicare quegli elettori di sinistra (prevalentemente bianchi del Sud e operai del Nord) spesso disponibili a votare per un candidato repubblicano.
Nel gennaio del 2008, l’aspirante candidato Obama confessò ai giornalisti di ammirare Reagan perché “aveva cambiato la traiettoria dell’America in un modo in cui non lo aveva fatto Richard Nixon, e nemmeno Bill Clinton”. A parte il perfido messaggio subliminale della serie “io sto a Clinton come Reagan stava a Nixon” (le primarie erano appena cominciate e l’antagonista era la metà di Bill), lo spot mirava a gettare l’amo della campagna “yes we can” oltre il recinto dell’elettorato democratico. I media stattero al gioco e subito si cominciò a sentir parlare di Obamacons. Dopo l’elezione, però, la bolla si è rapidamente sgonfiata, e tempo un anno il 44esimo presidente appariva già in lotta per la sopravvivenza. Dopo la batosta delle elezioni di mezzo termine dello scorso novembre, il parallelo con Reagan è riemerso, ma stavolta ci si riferisce alla sequenza 1980-1984, alla impressionante somiglianza della parabola vertiginosamente discendente nei sondaggi del primo biennio e alla sfida di risalire la china nel secondo. Alla vigilia di Natale, il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs ha confidato al mondo via twitter che il libro nella cui lettura il presidente si sarebbe immerso mentre si leccava le ferite alle Hawaii era, guarda caso, una biografia di Reagan. Anche stavolta i media hanno abboccato: le speculazioni su un Barack all’opera per calcare le orme di Ronnie, per non parlare degli inevitabili prontuari su come riuscire nell’impresa, rimbalzano da settimane da una testata all’altra – e si sono intensificate dopo il recente discorso sullo Stato dell’Unione, in cui molti si sono affrettati a leggere un tono reaganiano per via del mantra “win the future”.
Solo il tempo ci dirà se Obama godrà delle circostanze favorevoli che consentirono a Reagan di rialzarsi dopo il crollo di popolarità del 1982, ossia di una consistente ripresa economica. Già ora, però, possiamo escludere che l’attuale presidente disponga dell’altro ingrediente della formula magica che consentì al suo illustre predecessore di “lasciare il segno”: ossia il saper mettere da parte non solo il linguaggio, ma più in generale le convenzioni, la mentalità e i “tic” della politica politicante. L’aver chiuso vittoriosamente la Guerra Fredda, ad esempio, è un risultato epocale che non sarebbe stato né conseguito né percepito allo stesso modo se il 40esimo presidente avesse parlato ed agito come un politico “convenzionale”. Al momento in cui Reagan andò al governo tutto ruotava attorno o al dogma del “contenimento”: la Guerra Fredda era un conflitto in cui non si lottava per la vittoria, ma per la sopravvivenza. Pensare di uscirne vincitori era una bestemmia, un’eresia e una manifestazione di rozzezza ed ignoranza, perché significava compromettere la garanzia reciproca di non belligeranza fondata sul deterrente dell’olocausto nucleare. L'”uomo qualunque” Ronald Reagan trovava questa visione aberrante: la descrisse come la scena di due pistoleri «uno di fronte all’altro in un saloon, che si puntano reciprocamente la pistola alla testa… per sempre». La gente era stufa di vivere paralizzata in quella situazione e Jimmy Carter, subito dopo essere stato eletto, aveva inteso interpretare questa esasperazione proponendo una sorta di abbandono: nel famoso discorso che aveva tenuto nel 1977 all’Università di Notre Dame aveva proclamato la liberazione “dalla spropositata paura del comunismo”, e aveva sentenziato che la corsa agli armamenti sino ad allora disputata con l’URSS era “moralmente deprecabile” e andava abbandonata al più presto per passare ad una nuova fase di “distensione”. Reagan propose una via d’uscita alternativa: nel preparare la sua candidatura alle primarie repubblicane del 1979, spiegò ai suoi consulenti che la sua visione della gestione del rapporto con i sovietici era invece “semplice, qualcuno direbbe semplicistica: noi vinciamo e loro perdono”. La sua dottrina venne sintetizzata con l’espressione “roll back”, letteralmente “riavvolgere”: non semplicemente contenere, bensì far arretrare – giocare per vincere, non per sopravvivere. La gente comune non aspettava altro e lo votò in massa. Gli addetti ai lavori fecero spallucce liquidandolo come un parvenu che aveva sopravvalutato il pericolo sovietico. Al contrario, egli era stato così lucido da non lasciarsi ipnotizzare dalle linee guida del mainstream realpolitikante dell’epoca, e da intuire, prima e meglio di tanti “esperti”, che l’URSS era prossima al collasso e proprio per questo andava presa di petto. Contro il parere di molti anche nel suo partito, lo fece: con le parole (basti pensare al suo famoso discorso al parlamento inglese nel giugno del 1982 , quello dell’ “impero del male”, in cui sentenziò il comunismo sarebbe stato “consegnato alla storia come un mucchio di ceneri”; o a quello ancor più celebre pronunciato nel 1987 a Berlino, con il quale, contravvenendo alla ostinata opposizione dei vertici della diplomazia USA, sfidò Gorbaciov a tirare giù il Muro) e con i fatti (prima lo schieramento dei missili Pershing II e Cruise in Europa per fronteggiare gli SS20 che Mosca aveva installato sin dal 1977, e poi lo “scudo stellare”, poi il sistema antimissile che rompeva l’equilibrio del terrore prefigurando una capacità di colpire senza essere colpiti, e costringeva l’avversario ad una impennata nella corsa agli armamenti che Mosca non si poteva permettere).
Il presidente attuale, certamente spinto dall’esigenza di prendere le distanze da George W Bush ma anche dalla propria indole e dalla formazione da giurista accademico, ci ha ormai abituati, con le parole e con le azioni, a qualcosa di antitetico: una continua, ostentata ricerca di equilibrati compromessi, che dovrebbe rassicurare sia gli interlocutori che gli elettori proprio per la sua convenzionalità, per l’attitudine cauta e misurata. Obama non prende mai posizione “a caldo” su niente, e quando finalmente prende posizione evita ostinatamente di sbilanciarsi: il suo stile ed il suo metodo sono quelli di uno sempre molto preoccupato di non tirare troppo la corda, di non voler trascinare il Paese in imprese che non si può permettere. Per rendersi conto di quanto poco di reaganiano ci sia nel suo stile, basta ascoltare uno qualsiasi dei suoi discorsi sullo Stato dell’Unione, e poi andarsi a riascoltare quello che Reagan pronunciò nel 1986, nel quale, con gisto tipicamente americano per la cultura “pop”, citò persino il film “Ritorno al Futuro” (nel quale pure veniva preso in giro, ma lui era uomo di grande humour ed aveva molto apprezzato), e lanciò al mondo il seguente dispaccio: “a quelli che si trovano in prigionia per volontà di un regime dittatoriale, a quelli che vengono picchiati perché si ostinano a combattere per la libertà e la democrazia – per il loro diritto di professare una fede, di parlare, di vivere, e di prosperare nella famiglia delle nazioni libere – noi stasera vi diciamo: non siete soli, combattenti per la libertà. L’America sosterrà con assistenza morale e materiale il vostro diritto non solo di combattere e morire per la libertà, ma anche di combattere e vincere conquistando la libertà – in Afghanistan, in Angola, in Cambogia e in Nicaragua. Questa è una grande sfida morale per tutto il Mondo Libero”. Difficile non provare una profonda, intensa nostalgia.