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Tocca a Sarah
La sola vera possibilità che ha John McCain di ribaltare ancora una volta il tavolo si chiama Sarah Palin. Per lei e per la sua capacità di parlare all’America conservatrice più profonda passano le chance del candidato repubblicano di colmare il distacco che lo separa da Barack Obama. Un distacco che si è fatto ampio negli ultimi 4-5 giorni, complice la crisi finanziaria e la maggiore, vera o presunta, capacità di Obama in campo economico. Durante il primo dibattito,poi, McCain è apparso fin troppo “soft”: ottimo per un candidato che vuole apparire bipartisan a tutti i costi, non certo il massimo per uno che deve recuperare posizioni e punti sull’avversario. McCain non ha affondato il colpo, non ha inchiodato Obama alle sue mille contraddizioni, non lo ha umiliato, e in parte poteva, sui temi di politica estera e, cosa peggiore in questo periodo, ha balbettato in campo economico. Mai come oggi, dopo otto anni di presidenza Bush e battaglie al calor bianco con l’opposizione liberal, l’elettorato repubblicano ha bisogno di qualcuno in cui identificarsi, di un simbolo del conservatorismo a cui attaccarsi, una sorta di bandierina da sventolare per sentirsi ancora parte di quella “right nation” che spinse per ben due volte W alla Casa Bianca. McCain è un candidato che dà l’impressione di poter essere un ottimo presidente, ma non accende (per il momento) gli animi: non ha l’idealismo immaginifico di George Bush nè la carica umana di Ronald Reagan. E’ un candidato percepito come un corpo estraneo dal partito e questo, che potrebbe dargli un’aurea bipartisan, in realtà lo deprime in termini di mobilitazione popolare. Obama ha lo stesso problema all’interno del suo partito, ha intere frange democrat (i clintoniani su tutti) che gli vorrebbero e gli starebberro giocando contro. Tuttavia ha il grandissimo pregio di essere giovane, di colore, e di sembrare Kennedy con qualche anno di ritardo. Questo fa si che ci sia una “left nation” pronta a mobilitarsi dietro di lui, capace di essere quella macchina da guerra che è stata per Clinton lo scorso decennio. A zio Mac, come detto, resta la carta Palin. Se Old John cercasse di inventarsi agitatore di popolo ne uscirebbe una figura ridicola. Per questo la carta Palin, nel mazzo dei possibili vicepresidenti, era la migliore che potesse giocarsi. Adesso sta a lei sfruttare al meglio il dibattito di mercoledì sera, fregarsene di Joe Biden, della politica estera, del politichese di Washington e delle sedute di “political correctness” a cui l’hanno sottoposta. Deve attaccare, aggredire, stimolare, risvegliare la pancia degli americani. Deve riuscire a spiegare che, una volta ancora, deve esserci un repubblicano alla Casa Bianca. E deve essere convincente anche sul tipo di repubblicano che serve: un maverick, più che un moderato, un uomo dell’Arizona profonda piuttosto che un esperto senatore. A lei il compito più difficile, riportare ai repubblicani l’orgoglio di essere conservatori. In fondo, McCain l’ha scelta perchè è un pitbull. Ora deve azzannare.