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Con Israele
C’è che uno sta zitto un’intera giornata, altrimenti c’è chi poi ti dice che sei un estremista. O che dai ragione a questo o a quello per partito preso. Però c’è anche – come diceva Oriana Fallaci – che a un certo punto della faccenda, tacere diventa una colpa. Una colpa grave. E allora, dopo aver lungo letto, guardato, pensato, contemplato,è giunto il momento di chiamare le cose con il loro nome. Il loro nome di battesimo, non con un soprannome o con un nome d’arte. C’era una barca che voleva forzare un blocco. E c’era un esercito che stava compiendo un’azione di polizia su quella barca. Quell’esercito (regolare, a differenza della barca) è stato accolto a sprangate. E si da il caso che quell’esercito rappresenti l’unica vera democrazia del medio-oriente. E forse una delle poche democrazie verso cui nutro rispetto, considerate le reazioni delle cosiddette democrazie occidentali. In qualsiasi paese civile, forzare un blocco navale equivale ad un atto deliberato di guerra. Non qui, non se di mezzo c’è Israele. Che avrebbe dovuto porgere l’altra guancia, per l’ennesima volta, lasciando che il battello dell’odio arrivasse a Gaza, creasse un precedente e desse il via libera alla creazione dell’ennesimo santuario dove lasciare il terrorismo agire indisturbato. Come altre volte e su altri temi non è questione di destra-sinistra. L’irresponsabilità politica di Stefania Craxi (figlia di tanto padre in fatto di rapporti con il mondo arabo) e l’ipocrisia codarda del nostro ministro degli Esteri, lavano la coscienza di un paese che ormai non è più in grado di indignarsi, di prendere una decisione coraggiosa e di stare fermamente dalla parte della libertà, della democrazia, dei diritti. Si confonde una nave piena di invasati filo terroristi con il diritto di uno stato democratico all’autodifesa e alla protezione del suo popolo. E lo si fa ben oltre le buone intenzioni di quello stato, la sua disponibilità a consegnare comunque gli aiuti, la storica evidenza di essere davanti ad una guerra culturale tra la libertà israeliana e la tirannia religiosa iraniana, siriana, persino turca. Oggi più che mai, oggi che non è di moda, oggi che è terribilmente difficile, qui si sta con Israele. Contro il mio stesso partito, contro il mio stesso governo, contro la maggioranza dei giornali e delle televisioni del mio paese. Quel che è accaduto dovrebbe apparire come un gigantesco campanello d’allarme per le sopite coscienze occidentali. Purtroppo però, tranne qualche isolata voce di dissenso, il sonno è profondo. Da Londra a Berlino, da Parigi a Roma, a Madrid. E il peggiore dei problemi è che, da un anno e mezzo, si dorme anche a Washington.