Quel Nobel che divide
Liu Xiaobo, dissidente cinese, ha vinto il Premio Nobel per la Pace. L’annuncio è stato fatto lo scorso 8 ottobre, e da allora il governo di Pechino ha lanciato una campagna di repressione contro la dissidenza democratica interna che non ha eguali. Se non, forse, durante i tempi cupi della Rivoluzione culturale voluta da un Mao Zedong in pesante disarmo, che sentiva la necessità di rinfocolare gli animi dei suoi pasdaran per non essere allontanato dal potere. Intendiamoci, i tempi sono cambiati: dai rastrellamenti porta a porta, conditi da processi popolari che terminavano spesso con un linciaggio, siamo passati a una più blanda operazione di copertura totale.
La polizia bussa a una porta, prende una persona scomoda al regime e la porta molto spesso semplicemente lontano da casa; il più delle volte il dissidente in questione finisce in una cosiddetta “black jail”, un’anonima stanza d’albergo a mille chilometri dal luogo d’origine, senza la possibilità di comunicare con alcuno. Poi, una volta calmatesi le acque, viene riportato al luogo di partenza. Questo cambiamento di metodi si spiega con il cambiamento della società cinese, molto meno politicizzata rispetto agli anni del Grande Timoniere e molto più docile rispetto al passato, e con la paura di finire una volta di più nell’occhio del ciclone dopo i fatti di Tiananmen. Che, non dimentichiamolo, vennero ripresi da telecamere scomode dell’Occidente libero, invitate a riprendere una visita di Stato sovietica in Cina. Questa pantomima si ripete ogni qual volta si sta avvicinando, o è in corso, un avvenimento di natura politica che attira l’interesse del mondo: la riunione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo, l’anniversario del massacro di piazza Tiananmen, le Olimpiadi et similia.
Questa volta, ovviamente, i 140 arresti sommari già compiuti – a cui vanno aggiunti, con molta probabilità, i molti altri arresti di cui non si sa nulla – sono da ascrivere alla vittoria del Nobel da parte di Liu e alla volontà cinese di svuotare la sala del Municipio di Oslo dove avverrà la premiazione. Come in ogni storia, però, anche qui c’è una verità scomoda e che conoscono in pochi: la scelta della Commissione norvegese ha spaccato anche il movimento democratico cinese. E oggi molti fra gli arrestati si lamentano per un rastrellamento in più che Liu Xiaobo, dicono, non merita. Vediamo perché. L’autore di Charta ’08 ha attirato un’attenzione senza pari da parte di media e benpensanti sparsi praticamente ovunque nel globo. Il suo manifesto democratico è ben scritto, si rifà a un caposaldo della democrazia occidentale – quella Charta ’77 firmata Vaclav Havel – e si è beccato una condanna a undici anni di galera per la sua richiesta di maggior libertà all’interno della Cina. Ha una moglie dalla faccia simpatica, che senza aver fatto nulla è costretta ai domiciliari dai mastini di Pechino, e soprattutto ha partecipato ai moti studenteschi/operai che scossero la Città Proibita nel 1989. Ma non è quello che sembra; almeno, non del tutto.
Lasciando da parte le cronache italiane secondo cui «sarebbe in galera da oltre 20 anni per i fatti di Tiananmen» o che lo vogliono «diretto sfidante del presidente Hu Jintao» (e vi giuro che ho letto entrambe le idiozie su due quotidiani nazionali), come tutti anche Liu Xiaobo ha un passato. E il suo è fatto di università – era professore di lettere alla Normale di Pechino e visiting fellow ad Harvard – di libri scritti e stampati e di impegno civile. E tutto questo, per uno che conosce la Cina, vuol dire che in qualche modo ha dialogato con il governo; senza, ovviamente, porsi come un oppositore. La realtà storica ci consegna un Liu Xiaobo che entra in galera dopo il 4 giugno ’89, condannato a quattro anni di carcere, e ne esce prima di aver scontato la pena «perché ha ammesso i suoi errori».
Un Liu Xiaobo che, nei primi anni Novanta, appare alla televisione di Stato per negare che in piazza siano morti degli studenti «come dicono coloro che odiano la Cina» e che insegna ai suoi studenti a leggere la Storia e la letteratura «con lenti cinesi». E questo i suoi compatrioti, quelli che oltremare o in casa operano da anni per la democrazia, non vogliono che venga dimenticato. Intendiamoci, io credo nella redenzione in tutte le salse possibili e immaginabili. E sono sicuro che aver dedicato il Premio Nobel “ai martiri di Tiananmen” sia stato un modo, per Liu, di chiedere scusa per quello che aveva fatto. So anche che la pressione di Pechino può essere forte fino a schiacciarti, e credo che nella vita si debba sempre cercare – in qualche modo – di sopravvivere. Insomma, penso che il dissidente abbia passato vent’anni a cercare compromessi (anche odiosi) con il governo per far dimenticare il proprio passato; ma credo anche che, a un certo punto, sia esplosa in lui la voglia di prendere il toro per le corna e lasciare libero spazio a quella voglia di combattere il regime che lo animava quando era un ragazzo.
Non mi unisco insomma a quella schiera di persone (per la maggior parte dissidenti cinesi) che lo giudica indegno del Nobel. Anzi, ritengo che il suo percorso di maturazione e redenzione – e l’effettivo aiuto che ha dato alla Cina con il suo manifesto e con la sua condanna – verranno in futuro ricordati come un momento fondativo della libertà nell’Impero di Mezzo. Ma Liu Xiaobo non è un santino da appendere alla parete o un uomo senza macchia e senza paura, come non lo è nessuno di noi. E questo, per chi crede nel valore della libertà, è un fatto che va accettato. Per andare avanti sulla strada giusta.
VINCENZO FACCIOLI PINTOZZI, 28 anni, romano con forti ascendenze salentine. Figlio d’arte, nasce come cronista sportivo a Sport.it (pallavolo, rugby, football americano e vela). Praticantato ad AsiaNews, dal 2003 al 2008 lavora in Cina, prima come stringer APTN e poi Ansa, fino a quando il regime comunista si accorge di lui e lo caccia. Nell’estate del 2008 trova asilo politico a Liberal, di cui oggi è caporedattore centrale. Ha molti difetti, ma un solo terribile vizio: le salsicce bacione.