L’amara vittoria laburista
Per il laburisti inglesi queste elezioni amministrative di medio termine potevano essere una straordinaria occasione per mandare un messaggio di vitalità al proprio elettorato. In parte, è stato così: il centrosinistra britannico guadagna 26 “local councils” e diventa su base nazionale il primo partito, scalzando dal gradino più alto del podio gli storici rivali conservatori.
E’, però, una vittoria amarissima. A mandare di traverso lo champagne a Ed Miliband e compagni ci sono innanzitutto i Tories che, accreditati di un pessimo risultato da larga parte degli osservatori, finiscono non solo per reggere l’urto della prima verifica dopo un anno di governo, ma anche per aumentare di quattro unità il numero di consigli controllati. Un risultato insperato qualche settimana fa e che, sommato al crollo degli alleati liberaldemocratici, rafforza ancora una volta la posizione del premier David Cameron e dei suoi uomini più fidati.
In seconda battuta c’è la storica affermazione dello Scottish National Party, diventato partito di maggioranza assoluta in quello che per anni è stato il bacino di voti prediletto da chi ha espresso nel breve volgere di tre legislature ben due premier (Tony Blair e Gordon Brown) provenienti dalla terra che fu di William Wallace. E proprio la Scozia, alle ultime elezioni politiche, ha “salvato” i laburisti garantendogli una consistente rappresentanza parlamentare e costringendo i conservatori alla grande coalizione con Nick Clegg. Questa affermazione indipendentista cambia completamente la prospettiva e mette in un angolo un’intera classe dirigente che aveva fatto del dialogo con la Scozia e dell’interpretazione delle sue spinte stataliste e autonomiste la principale garanzia di sopravvivenza nel dopo-Blair.
Da ultimo, ma non certo per importanza, è arrivato l’esito del referendum che chiedeva ai sudditi di sua maestà di abbandonare il sistema maggioritario puro per approdare a un più “proporzionale” Alternative Vote, sul modello di quanto accade, ad esempio, in Australia. Un plebiscito di no al cambiamento che ha letteralmente elettrizzato i Conservatori, unici a essersi ufficialmente schierati contro la modifica del sistema elettorale e, quindi, i soli a poter oggi legittimamente reclamare la vittoria. Se i componenti della coalizione si trovavano l’un contro l’altro armati (David Cameron a guidare la campagna per il mantenimento del maggioritario, Nick Clegg a favore dell’Alternative Vote), il Partito Laburista ha finito con il dividersi su posizioni differenti: mentre l’ex ministro blairiano John Reid sfilava con i conservatori, il giovane leader Ed Miliband sosteneva i Liberaldemocratici. Una lacerazione interna che ha pesato anche sul risultato poco brillante uscito dalle urne dei consigli locali.
Il Labour Party ha affrontato questa tornata elettorale come l’ideale rivincita a un anno di distanza dalla sconfitta alle consultazioni politiche. E’ stata, invece, una due-giorni in cui il centrosinistra britannico ha preso coscienza di quanto ancora siano distanti i fasti dell’era dominata da Tony Blair. Da un blocco socialdemocratico capace di parlare a un intero Paese, i laburisti si sono repentinamente trasformati in un partito profondamente diviso e senza più un’anima, né sociale né territoriale. Mai vittoria numerica fu politicamente più amara.
(oggi in edicola su Il Tempo)