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Le primarie USA
Le elezioni primarie, e in particolare le “primarie dirette” (quelle che prevedono il coinvolgimento diretto degli elettori nella scelta dei candidati), non nascono insieme alla democrazia americana. Nella Costituzione del 1787 non si parla affatto del ruolo dei partiti. E fino al 1832 non esistevano neppure le convention nazionali per la nomina dei candidati alle elezioni presidenziali. Il primo, timido, utilizzo del sistema arriva dopo gli anni della Reconstruction (1863-1877) negli Stati del Sud. Dopo la Guerra Civile, il partito repubblicano era praticamente scomparso dal territorio un tempo controllato dalla Confederazione e i democratici si trovavano spesso a governare – a livello locale – rappresentando interessi e idee in contrasto tra loro. Nel Sud, insomma, le primarie nascono come un tentativo di rendere più democratico questo sistema a “partito unico”.
L’utilizzo delle primarie dirette si estende al di fuori di quella che oggi viene chiamata “Bible Belt” nei primi anni del Novecento. L’obiettivo, stavolta, è esplicitamente quello di abbattere le vecchie strutture dei partiti organizzati che governavano con pugno di ferro, ad ogni livello, la vita politica degli Stati Uniti. Controllo clientelare dei flussi migratori, corruzione dilagante, finanziamento illegale delle attività dei partiti, alleanze con la criminalità organizzata per risolvere le questioni interne o mettere a tacere candidati scomodi, controllo delle cariche giudiziarie e delle giurie popolari: uno scenario che farebbe rabbrividire il più scaltro dei lestofanti della nostra prima (o seconda) repubblica. Le elezioni primarie sono viste, da chi combatte contro queste forme di degenerazione partitica, come il modo più efficace per penetrare nel sistema e cambiarlo dal suo interno. Non è un caso se uno dei primi Stati ad imporre per legge l’utilizzo delle primarie dirette sia il Wisconsin, epicentro del movimento “progressive” nei primi decenni del secolo scorso. Lo strumento riesce a produrre buoni risultati, tanto che nel 1916 quasi metà degli Stati lo adotta come metodo per la selezione dei candidati alla presidenza federale.
I due conflitti mondiali e i relativi periodi di instabilità economica, però, aiutano i partiti maggiori, seppure fortemente ridimensionati, a riconquistare il pieno controllo nella selezione della propria classe dirigente. Il metodo preferito diventa quello del caucus (una parola originaria dei nativi americani che, tradotta letteralmente, significa “riunione a gambe incrociate davanti alla tenda”). Proprio come i capi tribù pellerossa sceglievano i propri capi, così nei caucus gli attivisti del partito (o, se vogliamo essere maligni, i boss locali del partito) scelgono i propri candidati. I metodi utilizzati sono diversi – per i repubblicani il voto è segreto, per i democratici no – e talvolta molto pittoreschi, ma in linea di massima si tratta di un sistema in cui prevale il voto “comunitario” invece di quello individuale. Un sistema molto più facilmente manipolabile dai vertici locali del partito.
Dal 1916 al 1968, gli Stati che continuano a preferire le elezioni primarie dirette diventano sempre di meno, fino ad essere più o meno 1/3 del totale. Le primarie vengono tollerate dai partiti, quasi come una sorta di “sondaggio sul campo” per misurare la popolarità dei candidati meno noti (J.F. Kennedy, nel 1960, è uno degli esempi più eclatanti). Ma bisognerà aspettare la convention democratica di Chicago del 1968 per assistere ad un ritorno in massa al metodo delle elezioni primarie dirette. La nomina di Hubert Humphrey (favorevole alla guerra in Vietnam), in totale contrasto con il sentimento prevalente nella base del partito, porta ad un moto di ribellione popolare così intenso da costringere i democratici a sbarazzarsi quasi ovunque dei caucus, per tornare alle primarie. E i repubblicani, più o meno, si adeguano. Dal 1972 in poi, la maggioranza degli Stati americani impone per legge l’utilizzo delle elezioni primarie dirette come metodo principale per la selezione delle candidature politiche.
Ma esistono almeno cinque sistemi diversi per dare vita alle primarie. Il primo metodo è l’elezione primaria “chiusa”. Possono partecipare soltanto gli elettori giù registrati nelle liste elettorali di un determinato partito. La registrazione, che non è in alcun modo una “iscrizione” al partito nel senso europeo del termine, avviene su un registro pubblico controllato dalle autorità locali. In alcuni Stati (per esempio quello di New York), la registrazione deve essere formalizzata almeno un anno prima della data in cui si tengono le elezioni primarie, ma questo limite temporale varia moltissimo, fino ad arrivare a tre mesi (Connecticut) o addirittura a quindici giorni (South Dakota). Tra gli altri Stati che danno vita alle primarie chiuse ci sono Pennsylvania, Wyoming, New Jersey, Oregon, Maine, Delaware e Nebraska.
Poi ci sono le primarie “chiuse, ma aperte agli indipendenti”. Anche in questo caso, possono partecipare gli elettori registrati al partito. Ma stavolta le votazioni sono aperte anche agli “indipendenti”, che possono scegliere di partecipare e vengono iscritti nelle liste del partito nel momento in cui prendono parte alle sue primarie. In Maryland e New Hampshire l’elettore indipendente può chiedere di essere cancellato dal registro immediatamente dopo le elezioni. Nello Utah la cancellazione è automatica. Questo metodo semi-chiuso viene utilizzato (tra gli altri Stati) anche in Arizona, Colorado, Florida, Kansas, North Carolina e West Virginia.
Il terzo sistema sono le primarie “aperte e pubbliche”. Possono partecipare gli elettori che, nel giorno delle elezioni, dichiarano la propria scelta di partito direttamente al seggio (in cui si tengono anche le primarie degli altri partiti), senza bisogno di alcuna registrazione precedente. In Texas la scelta viene considerata come un’iscrizione informale al partito e vale anche per tutte le primarie che si terranno nell’anno successivo. Negli altri Stati – tra cui Alabama, Arkansas, Georgia, Illinois, Ohio, South Carolina, Tennessee e Virginia – la scelta non ha alcun effetto successivo.
Il quarto metodo è l’elezione primaria “aperta e privata”. Possono partecipare tutti gli elettori che si presentano al seggio nel giorno delle elezioni. E la scelta del partito avviene segretamente, senza necessità di alcuna dichiarazione o registrazione. Tra gli Stati in cui è in vigore questo sistema, ricordiamo Idaho, Hawaii, Michigan, Wisconsin, Minnesota, Mississippi e Montana.
Il quinto e ultimo tipo di elezione primaria diretta è quella “coperta” (blanket primary). Gli elettori ricevono una scheda con tutti i candidati di tutti i partiti che corrono per una determinata carica. I due candidati più votati, a prescindere dal partito, partecipano alle elezioni vere e proprie. Gli elettori, in questo caso, scelgono senza alcun vincolo di partito ed è naturalmente possibile la pratica del voto “disgiunto” per le diverse cariche elettive in gioco. La blanket primary, che solo l’Arkansas ha utilizzato per la selezione dei candidati alle elezioni presidenziali, è da sempre una pratica molto contestata. Tanto che, con una sentenza del 2000, la Corte Suprema ne ha decretato l’incostituzionalità.
Con la diffusione sempre più vasta delle elezioni primarie dirette, negli Stati Uniti i partiti si sono trasformati da macchine per il controllo delle istituzioni in “strutture leggere” al servizio dei candidati. Sono questi ultimi, ormai, a riempire di contenuti i partiti. E non viceversa. I partiti esprimono linee-guida, indirizzi generici di politica estera ed economica, ma hanno perso quasi del tutto il ruolo di “fabbriche del programma”, compito che è affidato ai singoli candidati, ognuno dei quali deve rendere conto a segmenti di elettorato diverso: il candidato alla presidenza risponde alla nazione; quello del Senato al suo Stato; quello della Camera al suo distretto.
In un sistema che ha metabolizzato da secoli il principio della separazione dei poteri, il metodo funziona egregiamente a tutti i livelli. Pensare di esportarlo, sic et simpliciter, in Italia sarebbe ingenuo. Ma partiti – o coalizioni – che si propongono di rappresentare la maggioranza degli elettori nel nostro Paese, non possono che cercare di fare tesoro dell’esperienza americana per esplorare possibili adattamenti di questo metodo alla nostra realtà specifica. Primarie di partito o di coalizione? Aperte, semi-aperte o chiuse? Governate dalla legge o auto-regolate? E quali limiti imporre ai finanziamenti delle campagne elettorali, al ruolo dei gruppi organizzati e dei media? Le domande a cui rispondere sono molte, ma iniziare a discuterne è obbligatorio per chi ha a cuore il “sogno del partito americano”. Forse non è ancora troppo tardi.
(oggi in edicola su “Il Tempo“)