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Death Match
La sintesi perfetta l’ha trovata oggi pomeriggio, con un tweet, Nate Silver di FiveThirtyEight: “Suppongo che Alabama e Mississippi rappresentino il death match tra Santorum e Gingrich”. E’ proprio questa, in sostanza, l’eredità che ci lascia un Super Tuesday anomalo, in cui tutti e quattro i candidati rimasti in corsa hanno qualche motivo per esultare (e qualche motivo per rammaricarsi). Ma andiamo con ordine.
Mitt Romney. Come sempre più spesso gli accade, ha vinto, ma senza riuscire a sferrare il colpo del knock-out contro i suoi avversari. Tutto sommato la sua è stata una notte positiva, ma soltanto grazie alla soffertissima vittoria in Ohio. Il problema dell’ex governatore del Massachusetts continua ad essere il Sud. E non si tratta di un problema secondario, visto che la Bible Belt è il principale serbatoio di voti per il partito repubblicano. Romney è andato malino in Georgia (26%), Tennessee (28%) e Oklahoma (28%). Perfino in Virginia (60%), dove Santorum e Gingrich si erano auto-eliminati, ha lasciato per strada quattro elettori repubblicani su dieci, che hanno preferito votare Ron Paul piuttosto che affidarsi ciecamente alle scelte dell’establishment GOP. Vincere in Massachusetts e Vermont porta sicuramente delegati, ma la dice lunga sulla coalizione elettorale che sostiene Romney, davvero anomala rispetto alla storia recente del partito repubblicano. A proposito di delegati, Romney (404) continua a godere di un grande vantaggio sugli avversari (soprattutto grazie ai caucus, dove conta più il partito del voto popolare), ma il la soglia fatidica di 1.144, necessaria per affrontare la convention di Tampa senza patemi d’animo, continua a sembrare lontana.
Rick Santorum. Sembrava in fase calante, dopo tutte le polemiche (molte montate artificiosamente dai mainstream media) in cui era stato coinvolto nelle ultime settimane. Invece ha sfiorato il miracolo in Ohio e si è confermato su performance molto solide – soprattutto rispetto a Gingrich – in tutta la nazione, non soltanto al Sud. Le vittorie in Oklahoma e soprattutto Tennesse sono state molto convincenti. E ha dimostrato di essere un avversario difficile per Romney anche nei caucus, come dimostra il North Dakota. Nel conto dei delegati (165) resta la seconda forza del quartetto in gara. Adesso deve trovare il modo per sbarazzarsi della scomoda presenza di Newt Gingrich, che si divide con lui i voti del fronte conservatore anti-Romney. In Alabama e Mississippi, martedì prossimo, avrà un’occasione d’oro per rimanere l’ultimo “true conservative” in corsa. Ma non può permettersi di sbagliare.
Newt Gingrich. Anche lui era stato ripetutamente dato per morto, soprattutto dai profetti dell’ineluttabilità di Romney. Con una larghissima vittoria nel suo home-state della Georgia (che era, nel numero dei delegati assegnati, lo stato più importante di tutto il Super Tuesday), Gingrich si è invece assicurato la sopravvivenza almeno per un’altra settimana. Il voto del 13 marzo in Alabama e Mississippi, però, rappresenta realmente la sua ultima chance per rilanciare una Southern Strategy su cui pesano le ombre del terzo posto raccolto sia in Tennessee che in Oklahoma. Rispetto al numero degli stati vinti (soltanto Georgia e South Carolina), Newt ha comunque portato a casa un numero ragguardevole di delegati (106), che gli permette ancora di conservare una residua speranza di resistere fino alla convention. Deve però dimostrare – a partire da Alabama e Mississippi – di essere davvero il “figlio prediletto” del Sud. E per farlo deve battere, senza se e senza ma, Santorum. In caso contrario, tra una settimana la sua corsa è arrivata al capolinea. Una mano potrebbe dargliela l’endorsement “indiretto” di Sarah Palin, che nel Sud è in grado di spostare più di un voto.
Ron Paul. Qualche buon risultato (i secondi posti in North Dakota e Virginia), una ventina di delegati che vanno ad aggiungersi a un “tesoretto” da non sottovalutare (66), qualche prestazione più opaca del previsto (Oklahoma e Massachusetts): si può riassumere così il Super Tuesday di Ron Paul, l’unico che martedì non si giocava niente di importante. Il Dottore, infatti, non rischia il ritiro per mancanza di vittorie. Per il semplice fatto che non si ritirerà mai e continuerà, invece, la sua battaglia culturale all’interno del partito repubblicano, per costringere il GOP a considerare l’opzione libertarian in economia (per fortuna) e in politica estera (purtroppo). Ron Paul si conferma come l’unico candidato che riesce a scaldare il cuore dei giovani. Certo che, se non inizia a sfoderare performance più convincenti almeno nei caucus, il “goal della bandiera” rischia di sfuggirgli fino alla convention.