Diario Americano/2
Dallas, Texas. La politica nel Texas raramente è un affare per mammolette. Negli ultimi 50 anni gli sconvolgimenti e le pugnalate alla schiena si sono sprecate. Per chi, come il sottoscritto, ha qualcosa come 10 anni di esperienza in trincea nella poco pulita e molto poco edificante politica locale della destra toscana, sembra di essere tornati a casa. Dirigenti locali ed attivisti del Tea Party di Dallas non hanno avuto la fortuna di crescere in un ambiente tanto malsano. Gli mancano gli anticorpi o, come si dice dalle nostre parti, pelo sullo stomaco da rivestire una coperta anni 70. Il loro stupore di fronte agli sgambetti, alle piccole e grandi carognate che costituiscono il pane quotidiano di ogni campagna elettorale è quindi infinita fonte di intrattenimento per l’osservatore esterno.
Ora capisco perché molti colleghi europei commettano il gravissimo errore di considerarli dei sempliciotti, neofiti della politica gettati allo sbaraglio, lontani mille miglia dai professionisti delle nostre parti. L’equivoco è comprensibile. Nell’ufficio del quartier generale della campagna di un rappresentante al Congresso del Texas c’è il marito della campaign manager, attaccato al telefono per risolvere un problema legato al sistema di voice over IP usato per le phone banks, le migliaia di chiamate fatte dai volontari per convincere elettori potenziali a votare per il proprio candidato. Probabilmente, nella vita normale, si tratta di un avvocato, di un business executive. Non un politico di professione, non uno dei tanti esemplari che popolano la politica europea, gente che uscita dall’università si è infilata in un partito, venendo poi girata in un conveniente consiglio di amministrazione a far danni in una municipalizzata fino alla prossima distribuzione di cadreghe. Qui in Texas persone del genere si trovano solo ad Austin, capitale immersa nel sottobosco politico ed universitario, cittadina quindi molto più europea, nel bene e soprattutto nel male. Nelle campagne sul territorio, sono praticamente tutti volontari, gente che crede fermamente nelle capacità del candidato X e che, per questo, decide di pagare in proprio mettendo a disposizione la propria professionalità ed il proprio (prezioso) tempo. Fiorito, Minetti e roba varia need not apply. Ci metterebbero cinque millisecondi a prenderli a calci.
Un grosso punto a favore dei dilettanti allo sbaraglio, quindi, specialmente se ti fermi abbastanza a lungo per renderti conto che dilettanti non lo sono per niente. Le tecniche impiegate non sono affatto dilettantistiche, si punta sugli elettori indecisi in vari modi, dopo ricerche di mercato commissionate ad istituti chiamati a dire le cose come stanno, non quello che fa comodo nei media. Una volta ottenuti i sondaggi mirati, si procede all’analisi delle liste elettorali, procedendo poi in maniera metodica e sempre più sofisticata.
La tradizione del “walking the district” è molto radicata da queste parti. Ieri, piuttosto riluttante, mi sono aggregato ad un piccolo gruppo di volontari diretti in una lunghissima strada di uno dei tanti quartieri residenziali della sterminata periferia di Dallas. A nostra disposizione un paio di tablet da 7 pollici, svuotati di tutto tranne un programmino semplice semplice equivalente alle “walk lists”, patrimonio da sempre degli attivisti grassroots. L’idea di usare un tablet invece del blocco con la matita non è certo rivoluzionaria, ma non fa altro che rimarcare quanto l’abisso con la politica europea si stia allargando. Tablet da 200 dollari l’uno, concessi in comodato ai volontari, che lasciano volentieri il deposito per mettere al sicuro la campagna elettorale da sconquassi economici. I tablet sono stati in realtà acquistati da un gruppo di donatori, ben lieto di dare una mano anch’esso. In questo modo i dati affluiscono direttamente al database centrale, che è quindi in grado di fornire statistiche istantanee ai vari campaign manager. Non sarà fantascienza, ma immaginatevi la faccia del classico politico di provincia italione di fronte ad una proposta del genere. Lui sa come si fa a vincere le elezioni, non ha bisogno di niente, ha la sua rete di portatori d’acqua con migliaia di persone cui non importa niente della politica, fino a quando non hanno qualcosa da chiedere.
Gente così, immersa dalla nascita nella melma del voto di scambio, occupa ancora militarmente la politica locale italiana. Chi vorrebbe il ritorno delle preferenze lo sappia. I signori delle tessere, i maestri della circonvenzione d’incapace, quelli che organizzavano le navette per portare signore inferme e più di là che di qua ai congressi provinciali pur di far numero, quelli lì, che una volta giunti al potere organizzano i festini coi soldi della regione/provincia/comune, quelli sono ancora vivi e vegeti.
I dilettanti a stelle e strisce, invece, non si fanno grossi problemi a partire con 35 gradi all’ombra e passare di porta in porta a fare le solite, tendenziosissime, domande volta dopo volta, senza stancarsi o protestare troppo. Chiedere un impegno del genere ai volontari italioti, sinceramente, sarebbe assurdo, anche per le prevedibilissime differenze di attitudine tra chi si sente suonare alla porta di casa.
Lunedì pomeriggio, per circa tre ore, siamo passati di casa in casa, ricevendo solo due rifiuti piuttosto secchi ma cortesi ed un gran numero di persone disposte a parlare e perdere più di cinque minuti. Una cosa stupefacente, a dire il vero, ma mai tanto stupefacente come le risposte delle persone. Come va il paese? Male, malissimo. Quale strada per uscire dalla crisi? Ridurre le spese del governo. Cosa deve fare il governo? Togliersi dalle scatole e lasciarci lavorare. Tutti, tranne una signora cinquantenne ossessionata dal sistema sanitario e dal terrore che i suoi conti non fossero più pagati dal Medicare. Tutti che dichiarano di votare Repubblicano, tranne qualche libertario alla Ron Paul, meno furibondo della versione online tanto popolare nei social media (il Paulbot incacchiato è ormai entrato nella leggenda).
All’inizio la cosa non mi sorprende più di tanto. Siamo in Texas, Bush Country central, un posto rosso che più rosso non si può, dopo esser stato la culla del vecchio partito Democratico, quello non ancora colonizzato da massimalisti socialisti e teologi della liberazione. I miei compagni di camminata mi correggono subito.
Il Texas è rosso fuoco, vero: l’ultimo governatore democratico, Ann Richards, era una democratica molto all’acqua di rose, texana da un tot di generazioni e con quell’aria folksy che piace tanto da queste parti. Da lei in avanti i pochissimi obamioti si sono rassegnati all’idea di una minoranza permanente. Per chi viene come me dalla Repubblica Socialista Sovietica della Toscana verrebbe quasi da compatire i poveri Dems, se non fosse per il fatto che spesso e volentieri nelle città vincono loro.
Vincono nonostante il 90% degli abitanti abbia idee che vanno dal classico conservatorismo old school al libertarianesimo più intransigente. La spiegazione è abbastanza semplice. In Texas si vota poco ed in pochi. L’elettore medio non si interessa affatto della politica locale, non segue i dibattiti, al massimo guarda solo quelli per il governatore, i senatori e pochissimo altro. Quando poi si presenta alle urne, vota solo i candidati che conosce: degli altri non si fida, e lascia quindi campo libero ai democratici, che invece votano giù fino all’ultimo candidato disponibile.
Anche nello stato forse più repubblicano del paese, lo spazio per i democratici non manca, almeno a livello locale.
Ad Austin, invece, le cose cambiano. Fino agli anni 90 si andava tutti d’amore e d’accordo, funzionava il circolo dei good ole boys che sapevano sempre come far campare tutti ed evitare guai. Poi è arrivata anche qui l’era del massimalismo, dei Contratti con l’America, delle epiche battaglie congressuali per l’Hillarycare e dello shutdown del governo. Le posizioni a riguardo non potrebbero essere più divergenti. C’è chi rimpiange l’era del volemose bene, chi ricorda che allora, in fondo, le cose andavano meglio e che quest’era fu alla base del grande boom degli anni 50 e 60. C’è invece chi ricorda che le radici dell’implosione degli anni 70 sono da ritrovarsi proprio nell’era precedente, nel fatto che i good ole boys, di fronte a roba tossica come la Great Society di Johnson, primo esemplare di democratico a cavallo tra il vecchio ed il nuovo partito, iniziava a pensare a cosa chiedere in cambio e fare due conti sull’ammontare delle consulenze da ottenere dalle industrie amiche.
Per farla breve, il cerchio dei good ole boys si è frantumato in mille accordi privati, personali, desistenze, aiutini trasversali, ma il sistema organico di cooptazione e codecisione è andato a farsi benedire.
Ora si lotta coltello tra i denti, con retorica sempre più al vitriolo e faide che raggiungono livelli di cattiveria quasi machiavellici, specialmente all’interno dei partiti. Le conseguenze si vedono in campagna elettorale: tutti sotto la stessa bandiera, formalmente, ma ben attenti a non commettere passi falsi che tornerebbero a colpirti più avanti, una volta eletto. I rapporti tra i protagonisti delle lotte intestine sono raramente idilliaci e le spaccature tra le diverse anime dei partiti diventano quantomai evidenti una volta che ci si avvicina al momento cruciale. Le riunioni organizzative non sono aperte a tutti, mind you, manco per niente. Invitati solo i candidati che la pensano in un certo modo, che si sono dimostrati affidabili nel cursus honorum e che quindi possono beneficiare dell’appoggio delle organizzazioni nelle quali risiede la vera forza elettorale, i corpi intermedi in ottima salute delle democrazie più funzionanti.
Il Tea Party, chiederanno i soliti affezionati quattro lettori, che fine ha fatto? A credere alle lenzuolate dei media mainstream da entrambi i lati dell’oceano, sarebbe già passato a miglior vita, morto e sepolto dalla solita ondata di scoramento e dai problemi della vita vissuta. Evidentemente i colleghi “bene” non sono mai venuti da queste parti. Nel tipico BBQ molto texano, con i ragazzotti che urlano e cantano affettando salcicce, bistecche, tacchino eccetera, martedì sera c’erano più o meno cinquanta persone. Poco, direte voi. Non proprio, se consideri che ognuno di loro era in rappresentanza di svariate centinaia di attivisti. Il Tea Party, almeno nella contea di Dallas, è vivo e vegeto.
Entri e ti aspetti chissà quali voli pindarici, sfuriate sulla politica di Obama o sulle dichiarazioni lanciate a bella posta dai soliti maitre-a-penser a gettone dei media per distrarre l’attenzione. Niente di tutto ciò. Riunione da un paio d’ore molto serrate, operative al massimo, nel quale si parla di indipendenti, di elezioni del sindaco, di registration drives, di cosa si è visto nel proprio distretto negli ultimi tempi. Eh già, perché a Dallas il Tea Party è di quartiere, lavora strada per strada, cercando di contattare quante più volte possibile gli elettori indecisi, per convincerli a votare non solo per le presidenziali ma anche per le gare locali, quelle che stanno più a cuore agli attivisti. Sembra l’immagine speculare dell’Italia di provincia. La passione per i temi nazionali c’è, ovviamente, ma i dirigenti si trattengono, rimangono con gli occhi ben fissi sull’obiettivo. Per le presidenziali si può, ma non molto: il Texas non è più il baluardo ultra-rosso dei tempi di Bush, ma dovrebbe andare in maniera solida al dinamico duo Romney-Ryan (o Ryan e “quell’altro coso là”, come dicono alcuni). La lotta vera è nelle elezioni locali, dove nel 2006 fu una disfatta su tutta la linea. 47 candidati repubblicani battuti su 47 posti in palio, un cappotto inaudito dovuto al fatto che gli elettori votavano solo per le gare maggiori, tralasciando le altre. Dallas è quindi un picco blu in un mare di rosso.
Ken Emanuelson, il giovane coordinatore/deus ex machina del Tea Party di Dallas, racconta come in parecchi distretti del centro si siano viste orde di dipendenti più o meno ufficiali della campagna di Obama percorrere in lungo e in largo le strade per registrare quanti più elettori possibile. Durante un incontro da queste parti, il Presidente ha promesso di “paint Texas blue”, obiettivo che ad un esperto di politica USA fa più o meno sorridere. Qui, invece, non si sorride manco per niente. Il pericolo è serio. Grazie alla disaffezione degli elettori repubblicani, parecchie aree urbane, da Houston ad Austin fino a Dallas, dove vive quasi il 50% dei texani, sono in mani democratiche. Da qui ad iniziare l’erosione costante della struttura di sostegno e supporto che rende la vita di un’attivista conservatore molto facile il passo è breve. Intanto i distretti elettorali sono stati ridisegnati, le commissioni urbanistiche iniziano ad intaccare l’articolo di fede numero uno del Lone Star State (“sulla mia terra faccio il cavolo che mi pare a me”) e via di questo passo.
Katrina Pierson, che dal Tea Party di Garland è salita poco alla volta nel ristretto novero dei volti conosciuti della politica televisiva (spesso ospite da Neil Cavuto su Fox News, ha un suo show radiofonico e parla spesso e volentieri a media piccoli e grandi), non si è montata affatto la testa. I massimi sistemi contano poco o niente, qui ci si preoccupa del fatto che le strade coperte dai “camminatori” siano poche, dalle sue parti. Il problema è preparare il terreno per candidature buone per il 2014, anno della agognata riscossa repubblicana, con tutti i posti chiave in ballo, dal procuratore distrettuale a vari giudici. La politica locale, qui, non fa affatto schifo. Venti minuti di pausa. Coffee break, penso io, con le salcicce che sguazzano nello stomaco. No, gruppi di lavoro territoriali per valutare i risultati del canvassing fatto finora, per decidere se sia necessario continuare per una settimana ancora a puntare gli indipendenti oppure passare direttamente alle registrazioni degli elettori o alla promozione dei seggi per il voto anticipato. Tutto molto pratico, tutto molto operativo. Nel gruppo dove mi trovo io, il Nord-Est, c’è il solito capetto di un TP locale che sembra in possesso della verità rivelata e prova a far convergere tutti sulle sue posizioni. Qualcuno storce la bocca, la tensione si taglia a fette. Entra in campo Scott e lo prende da parte, per iniziare una lunga e futile conversazione che soddisfa l’ego del personaggio, consentendo al gruppo di finire il lavoro. Good stuff. Di solito, nella mia esperienza, questo è il momento nel quale iniziano a volare le sedie…
Si ritorna insieme per presentare i risultati, senza che nessuno metta in discussione le decisioni degli altri gruppi. Una zona dice che non hanno bisogno di puntare gli indipendenti ma che passeranno direttamente alla registrazione dei votanti. Altrove, invece, si continuerà per due settimane, visto che i dati a disposizione erano pochi e lacunosi. Il coordinamento cittadino non apre bocca. “Siamo qui solo per aiutarvi”, ripete Ken. Non è un granché come segreto, ma questo federalismo attivista sembra funzionare parecchio. Alla fine arriva il momento temuto, Katrina mi presenta e mi becco un lungo applauso. Per fortuna mi risparmiano il discorso, ma diversi coordinatori mi avvicinano dopo per se potessi intervenire alla loro prossima riunione, tanto per incoraggiare gli attivisti. Come no, sono qui per questo, rispondo io. Tutto molto down to earth, tutto molto facile. Per chi ha sulle spalle anni di infiniti dibattiti e discussioni inconcludenti sembra un paradiso in terra. Andati via tutti, dalle parole di Ken e Katrina capisco che non è tutto oro quel che luccica, che la paura di non farcela esiste, ma che pragmaticamente si tira avanti lo stesso. Sospiro pensando allo scoramento che sta colpendo il centrodestra europeo e penso, tra me e me, che forse l’eccezionalismo americano sta anche in questo spirito, in questa capacità di non razionalizzare troppo ma continuare a tirar dritto senza farsi troppe paranoie. Forse è questa la chiave per smuovere il pantano malsano della simil-destra italiana. Forse, invece, sono solo cose che funzionano dalla parte giusta dell’Atlantico.
La seconda puntata, più o meno, finisce qui. Stay tuned, perché tra poco si parla dell’altro lato del partito repubblicano, quello in giacca e cravatta, nelle mansions, che invece dei tea parties organizza le cene in piedi. Qualcosa si muove pure lì.