Diario Americano/5
HOUSTON, TEXAS – Uno degli elementi che rende il movimento dei Tea Parties totalmente incomprensbile al pubblico ed ai media europei è il fatto che sia talmente variegato e multiforme da non permettere generalizzazioni facili. Quando si trova di fronte ad un fenomeno del genere, la reazione istintiva del giornalista medio italiano è semplice: ricerca Google e via a copiaincollare. Triste, ma questo più o meno è lo stato dei media italiani. Il Tea Party è forse il fenomeno più difficile da ridurre a categorie conosciute, è forse questa la ragione fondamentale alla base della marea di informazioni false e tendenziose sparse a piene mani dai media europei su di esso.
Dopo aver osservato da vicino la realtà della città di Dallas, caratterizzata da un’estrema frammentazione dei gruppi, una specie di paradiso per chi studia le dinamiche dei movimenti grassroots, visitare un altro baluardo del movimento, qualche centinaio di chilometri più a Sud sembra un buon modo per confermare quanto hai imparato sul movimento. Sorpresa sorpresa, la realtà che ho davanti agli occhi in questo momento non potrebbe essere più diversa.
Ad un’oretta di macchina dal mio albergo fronte spiaggia, in una zona industriale a dire il vero non particolarmente trafficata (la crisi, evidentemente, si fa sentire anche nello stato più operoso dell’Unione) si trova l’ufficio di uno dei Tea Parties più strutturati del paese, i King Street Patriots di Houston. Dopo qualche giro a vuoto tra le stradine, alla fine si arriva al numero giusto. Niente cartelli né indicazioni evidenti su dove si trovi l’ufficio. Evidentemente la sicurezza è un problema anche da queste parti.
La porta è aperta, ma appena entri vieni subito accolto da una anziana segretaria-volontaria, la stessa che ha letto l’email mandata la sera prima e ti ha contattato nel primo pomeriggio, rovinando i tuoi piani che invece prevedevano di continuare a far finta di lavorare a bordo piscina, aggiungendo un minimo di melanina al tuo colorito molto anglico. Catherine Engelbrecht, coordinatrice dei King Street Patriots e dell’organizzazione True the Vote, è nel suo ufficio, sommersa di cose da fare, email cui rispondere, assediata da un’operatore televisivo con tanto di Betacam professionale arrivato al seguito di Adriana Boyne, ex portavoce del GOP texano ora impegnata nell’arduo compito di risvegliare l’elettorato latino, corteggiato pesantemente dai democratici, ansiosi di aggiungere un’altra mucca da voti agli afro-americani e garantirsi una maggioranza permanente.
Non il miglior momento per un’intervista, quindi. Capita spesso e volentieri, purtroppo. Il lato internazionale, comprensibilmente, non è una priorità per chiunque sia impegnato nel Tea Party. Una curiosità, una cosa simpatica da raccontare in una riunione, ma niente di determinante nel percorso futuro del movimento. Evidentemente qualcuno dovrebbe ricordargli le posizioni di Lenin, uno che di queste cose se ne intendeva, sulla necessarietà di esportare la rivoluzione sovietica in altri paesi. I valori non potrebbero essere più diversi, ma la lezione rimane valida anche oggi.
Senza un’America forte ed indipendente, le forze del nuovo ordine realizzeranno il sogno di un socialismo mondiale, un incubo in grado di far perdere il sonno a chiunque ami la libertà. D’altro canto, se la spinta per un ritorno ai principi fondamentali del libero mercato e del liberalismo classico rimarrà ristretta nei pur ampi confini degli Stati Uniti, il futuro del mondo non sarà sicuramente meno orwelliano. All’ignoranza è conoscenza ci siamo già arrivati, anche al thought crime (lo chiamiamo politically correct, ma la sostanza è la stessa), la storia la riscrivono ogni cinque secondi, la guerra è pace da un pezzo, quanto mancherà al sexcrime? I libri non hanno neanche avuto bisogno di bruciarli. Una volta trasferito tutto in digitale basterà un solo EMP per cancellare la memoria del mondo e costringere tutti a vivere nell’eterno presente dell’incubo socialista fatto realtà compiuta.
Fare anticamera non è simpatico, ma far parte del mestiere. Naturalmente ogni minuto passato in una sala di aspetto a scrivere su una scomoda sedia di legno, sulla tastierina gommosa del tablet affila la penna. Probabile che non temano molto quello che un giornalista italiano può scrivere su di loro. Il fatto che vesta una molto stilosa polo del Tea Party di Mesquite-Sunnyvale non aiuta di sicuro.
Dopo qualche minuto passato a parlare osservando Catherine lavorare al suo MacBook (a quanto pare anche i conservatori sono tifosi della mela mangiata), faccio il bel gesto e le chiedo solo 15 minuti appena avrà sbrigato le faccende più urgenti. Pessima idea. Le cose da fare si moltiplicano e, dopo qualche tempo, le porte dell’ufficio si chiudono. Va a finire che l’unico risultato delle 100 e passa miglia fatte oggi sarà di aver parlato per un’ora al suo collaboratore numero 1 di quello che sta combinando il Tea Party in Italia e di come sarebbe importante capire come fare il tanto agognato salto di qualità.
A sorprendere quello che poi scoprirò essere il direttore creativo sia del gruppo TP che di True the Vote, un ragazzotto sui trenta e qualcosa piuttosto corpulento fasciato in un gessato a righine molto Don Corleone del tutto inadatto ai quasi 35 gradi della capitale economica del South Texas, è il fatto che la gran parte degli attivisti dei tea parties al di fuori degli Stati Uniti siano composti da under 30. Capisco che c’è un pizzico di invidia e che l’età media abbondantemente oltre i 60 della gran parte del movimento americano è fonte di parecchi grattacapi. A stupirlo ancora di più è la mia risposta: chi si unisce ai Tea Parties oltreoceano, gli spiego, si è reso conto che il treno della socialdemocrazia dominante non potrà che finire deragliato.
A parte gli utili idioti di Occupy ‘sta ceppa, gli Indignati a comando, i piccoli parassiti alla ricerca disperata di un posto pubblico, gli under 40, specialmente quelli dell’Europa Meridionale si sono resi conto che il sistema del welfare state crollerà molto prima che possano usufruire dei servizi che lo stato promette in cambio del supplizio fiscale. A loro, generazione derubata di tutto, soprattutto del futuro, toccherà pagare a vita tasse sempre crescenti per sostenere fino all’ultimo secondo il peso di una classe parassitaria cresciuta a dismisura e le precedenti generazioni, che poi avranno anche il coraggio di farsi belle quando continueranno ad ospitarli vita natural durante. C’è chi si è rassegnato a questo destino ingrato, cercando di arrabattarsi alla meno peggio e chi, invece, preferisce tentare di reagire, impegnandosi nell’ennesima battaglia contro i mulini a vento dell’universo conservator-liberale.
Il direttore creativo è sempre più sorpreso: “da noi i giovani si dividono tra chi è stato indottrinato a dovere dalla scuola pubblica e chi è troppo stupido per rendersi conto di quello che lo aspetta dietro l’angolo”. I giovani conservatori, che pure non mancano e cercano di compensare con l’operosità e la fantasia il fatto di essere in pesante inferiorità numerica, sono considerati mosche bianche, non la chiave del futuro del movimento. Con la crescente disoccupazione giovanile, schiacciati da debiti scolastici sempre più pesanti e costretti controvoglia a rimanere a casa come i coetanei italiani e spagnoli, difficile dargli torto. Gli unici a poter ribellarsi, impegnarsi in prima persona e finanziare coi risparmi di un’era più felice il movimento sono solo gli over 50, pronti a lottare per evitare di condannare i propri figli o nipoti ad uno stato di minorità permanente.
Il direttore creativo, cui dispiace lasciarmi in anticamera da solo, mi chiede il perché i giovani del Tea Party italiano non siano raggiunti dai propri genitori o nonni. Domanda da millemila miliardi, amico. La prima spiegazione che mi viene in mente è la seguente: chi si trova in pensione o vicino alla pensione non ha altra scelta che credere fino in fondo alle promesse dei politici e difendere a spada tratta la sua unica fonte di sostentamento. I miei genitori, come milioni di altri italiani, non hanno avuto alternative: dovevano per forza partecipare al sistema di pensioni pubbliche e le tasse così alte non gli hanno permesso di costruirsi quella indipendenza finanziaria che potrebbe consentirgli la rivolta. La pensione gli ha consentito di sostenere entrambi i figli durante i lunghi, talvolta interminabili, periodi di disoccupazione o sottoccupazione tipici del nuovo mercato del lavoro.
I figli della “greatest generation”, quella che ha reso ricca e potente l’Italia, appena sentono parlare di tagli alla spesa pubblica, vanno nel panico, temendo che la scure si abbatta sulla propria, unica, assicurazione sul futuro. Un’assicurazione contratta con una società dal passato quantomai discutibile, che oltretutto si è presa il diritto di cambiare i termini dell’accordo a suo piacimento, senza che il cittadino-suddito possa fare alcunché per difendersi dal sopruso.
A chi si sdilinquisce in lamentazioni sul futuro ingrato delle nuove generazioni ricordo che, quando il sistema imploderà di schianto, i primi a rimanere senza sostentamento alcuno saranno proprio i pensionati, che faranno la fine dei loro equivalenti dell’Est Europa, costretti a tornare precipitosamente al lavoro per evitare di morire di fame. Anche chi pensa di essere invulnerabile se la passerà male. Dal patatrac finale previsto da decenni da chiunque abbia letto un libro di Von Mises non si salverà nessuno. Saranno volatili per diabetici per tutti.
Questo non sorprende il direttore creativo: ha già visto fenomeni del genere anche negli Stati Uniti, dove i pensionati o pensionandi spesso non se la passano affatto bene. Annuisco, notando come in ogni esercizio non ci siano i soliti giovincelli brufolosi ma anche parecchi uomini e donne dai capelli d’argento, ad aprire le porte o imbustare gli acquisti nei supermercati. La necessità li ha costretti a tornare nel mondo del lavoro, ma dalla porta di servizio, nei lavori meno qualificati e peggio pagati, con ritmi adeguati alla loro età.
Un tempo succedeva ad una ristrettissima minoranza di over 65, nell’era di Obama, dopo il crollo verticale di molti 401k ed il fallimento di parecchie ditte che ha inghiottito TFR ed accantonamenti pensionistici dei meno accorti, sta diventando la nuova, terrificante, normalità. Il sottoscritto sorride: ha già accantonato da un bel pezzo il sogno di poter terminare la vita senza andare tutti i giorni al lavoro. Questo sol dell’avvenire non è così tanto luminoso, nevvero compagni?
La porta dell’ufficio di Catherine rimane desolatamente chiusa, ma continuo a sorvegliarla ostinatamente. Alla fine la cortesia del direttore creativo viene sopraffatta dal richiamo del dovere, lasciando il sottoscritto a condividere l’ingresso con i primi volontari giunti per dare una mano prima dell’incontro. A parte una madre sui quaranta, sono quasi tutti pensionati, moderatamente entusiasti e pronti a fare quello che gli viene richiesto, solitamente compiti non troppo complicati, dall’accoglienza al controllare se i partecipanti sono o meno nella mailing list del gruppo, la vera ricchezza dei King Street Patriots come di ogni gruppo locale che si rispetti.
Per aggiornare al volo la mailing list, ecco che spuntano un paio di iPad (aridaje, si vede che i soldi non gli mancano). Bob, l’addetto alla manutenzione della mailing list, ha un orecchio che non gli funziona molto bene e si contorce in posizioni assurde per portare quello buono dalle tue parti. Riesco a stento a non ridergli in faccia.
Poco male, anche sedere all’ingresso è comunque informativo. Mi guardo intorno. L’ufficio è parecchio grande, diviso in una sala riunioni con porta in vetro, due uffici più piccoli nei quali stanno i volontari-collaboratori (qualcuno probabilmente è retribuito), due altri uffici, uno scuro ed illuminato solo da una batteria di monitor (immagino sia quello dell’esperto di IT, gente piuttosto crepuscolare), l’altro momentaneamente vuoto. Una cucina, due bagni e poi una sala per gli eventi francamente mostruosa. Posto per oltre 300 persone, luci, palco, bandiere, tutto l’armamentario possibile ed immaginabile. Sicuramente una cosa che i movimenti europei potrebbero e dovrebbero imparare da questo gruppo è come raccogliere fondi, visto che sicuramente questa struttura costerà una fortuna. Se e quando riuscirò a parlare con Catherine, mi riprometto di chiederle come facciano a permettersi un ufficio del genere.
L’ora della riunione settimanale (un’altra stranezza;i gruppi di Dallas, di solito, si riuniscono al massimo due volte al mese) si avvicina ed arrivano gli invitati. Stasera ci saranno parecchi candidati alle posizioni elettive del sistema giudiziario. Arrivano alla spicciolata; divisa di ordinanza, vestito doppio petto grigio fumo o blu scuro per gli uomini, tailleur molto severo in colori non appariscenti per le donne, alcune piuttosto giovani ed avvenenti (peccato che quando sono passate avevo gli occhi fissi sullo schermo del tablet – patetico).
Il tavolino che avevo praticamente requisito per appoggiarci sopra il tablet viene sgomberato per permettere ai candidati di riempirlo con i loro “santini” ed il resto del materiale propagandistico, decisamente meno sofisticato di quello dei politici, più in linea con quello che dalle nostre parti si rifila ad ogni candidato in ogni campagna elettorale locale. Ci getto un’occhiata, spinto da genuina curiosità: l’idea che le posizioni di giudice siano elettive è peculiarità unica del sistema statunitense e mi sono sempre chiesto come si faccia a convincere gli elettori che un giudice è meglio di un altro.
Il materiale, come al solito, non è particolarmente informativo, le solite cose, un riassunto sintetico della carriera legale del candidato, uno slogan non particolarmente fantasioso, roba normale, fin quasi banale. Non che mi aspettassi chissà quali voli pindarici, ma sono un attimo deluso. Nella patria della pubblicità moderna speravo in qualcosa di leggermente più interessante.
Manca meno di un’ora all’inizio della riunione-conferenza ed oltre ai candidati inizia ad arrivare qualche attivista del gruppo, salutato come un vecchio amico dai volontari alla porta. Questo aspetto del movimento non cambia neanche in uno dei gruppi più organizzati del paese: alla base di tutto c’è l’amicizia, il senso di comunità, costruito pazientemente in anni di frequentazione regolare. Età media dei partecipanti, anche in questo caso, molto elevata: non è infrequente vedere persone con problemi di deambulazione, ampiamente sopra i 70 anni.
Sorrido pensando che, di solito, a quell’età, in Italia non si riesce a far altro che vegetare davanti alla televisione. Qui, invece, il lunedì sera alle 7 ci si fa una mezz’oretta di macchina per venire a sentir parlare per pochi minuti una serie di candidati a giudice probabilmente mai sentiti nominare. La differenza con la un tempo satolla Europa Felix è quantomai stridente. I candidati più avveduti non si sono ancora trasferiti nella sala eventi ma presidiano militarmente l’ingresso, cercando di scambiare qualche parola e spacciare qualche santino.
La sofisticazione delle campagne più importanti è lontana mille miglia: nonostante il potere giudiziario sia determinante in un sistema democratico, come abbiamo avuto occasione di verificare nell’Italia dell’onnipotente magistratura, che fa e disfa governi a suo piacimento, non molti elettori si prendono il disturbo di votare singolarmente i giudici che preferiscono. Alcune gare si vincono o perdono per una manciata di voti. L’argomento è ostico, mi sa che ho scelto la serata peggiore per venire da queste parti.
Dopo una pausa nicotina peripatetica nel parcheggio, quanto più lontano possibile dall’ingresso (la pressione psicologica da queste parti è mostruosa, la tendenza ad autoisolarsi dei fumatori diventa una necessità) si torna a piantonare la porta dell’ufficio di Catherine. Sei e 45, ormai tempo per un’intervista non c’è di sicuro. Non ho da consegnare il pezzo al più presto come al solito, ma la spiacevole sensazione di aver bucato la notizia è lì, vecchia compagna che pensavi di aver esorcizzato anni fa. Serata da buttare, almeno vediamo se si riesce a trarre qualche spunto utile dalla conferenza.
Entri nella sala, ancora più cavernosa di quanto ti eri immaginato e ti stupisci nel trovarla piena quasi a metà. Due giorni prima del primo dibattito presidenziale almeno un centinaio di persone sono intervenute a vedere trenta e passa candidati a giudice fare un discorsetto e nient’altro. Nelle poche battute scambiate con Catherine ho capito che il formato dell’incontro è più o meno sempre lo stesso: introduzione, preghiera comune, pledge of allegiance alla bandiera, comunicazioni istituzionali del gruppo, intervento ospiti, spazio alle domande e questua. Praticamente una messa laica-politica, sempre diversa ma che dura inevitabilmente un’ora precisa, dalle 7 alle 8 di sera.
Le sette arrivano e Catherine, uscita chissà quando dall’ufficio, sale sul palco. Si parte con qualche minuto di ritardo. D’altro canto sono americani, non svizzeri. Musica che sale, luci a posto, proiettore che spara alle spalle del motore molto poco immobile di questa organizzazione immagini appropriate. Qualcuno mi ricorda che in un giorno normale sono oltre ventimila le persone che si collegano al sito per seguire gli eventi in streaming video.
Dubito che stavolta saranno più dei presenti in sala. Il tono è quello cordiale, quasi colloquiale di chi è abituato a parlare in pubblico, con quel pizzico di showmanship che da queste parti piace assai. Noto che Catherine non si è cambiata per lo show: veste la stessa gonna di jeans e la camicetta che aveva nel pomeriggio, troppe cose da fare ed il tempo per cambiarsi vola via. Il diavoletto sulla spalla mi suggerisce che questa aria “folksy” non è casuale, ma serve per far dimenticare a tutti che suo marito è un avvocato di successo facoltoso assai. Invece di giocare a burraco, la signora Engelbrecht ha deciso di prendersela con il reparto brogli e manipolazioni elettorali del Partito Democratico di Obama, uno educato nella politica di Chicago, dove i colpi bassi si sprecano da sempre. Ognuno si diverte come gli pare, no?
La preghiera, rapida e poco retorica come usa oltreoceano, viene recitata da un altro dei fondatori di King Street Patriots, che sale sul palco addirittura in bermuda. Sloppy, penso io, ma forse ha ragione lui. La pledge of allegiance viene subito dopo: tutti in piedi, mano sul cuore e via con le parole che, un tempo, ogni americano recitava quotidianamente all’inizio delle lezioni. “Giuro fedeltà alla bandiera americana e alla Repubblica che rappresenta. Una nazione soggetta a Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti”. Ho partecipato anch’io, non in maniera ipocrita, ma sentita. L’America non è una nazione come tutte le altre, ma un’idea, una filosofia di vita. Non si può dire lo stesso per l’Italia, la Francia o perfino il Regno Unito, forse la nazione più simile agli Stati Uniti dal punto di vista ideale. Americani non si nasce, i veri americani sono ovunque nel mondo. Il fatto che uno di loro sia nato a Pontedera è una coincidenza. Poi, la sorpresa: la pledge of allegiance alla bandiera del Texas. E qui rimango un attimo basito. Anche il Texas non è uno stato come tanti altri, essere texano non è lo stesso che essere americano e no, non c’entrano granché i cappelli Stetson, gli stivali con gli speroni ed i mega-pick up con le corna di un longhorn. La pledge, stavolta, è molto meno sincera.
Catherine torna sul palco e parla di quello che è successo dall’ultima volta sia per King Street Patriots che per True the Vote. Un bel riassunto con qualche battuta, per alleggerire il fatto che qualcuno nell’universo liberale si è accorto che le contromisure per bloccare i brogli messe in atto da True the Vote potrebbero rinforzare potenziali cause legali contro i risultati negli stati in bilico ed ha iniziato ad attaccare lancia in resta. La senatrice ultra-liberal della California (duh) Barbara Boxer, finita nel mirino del Tea Party, sopravvissuta e quindi ancora più velenosa, ha chiesto a gran voce un’inchiesta contro i metodi (secondo TtV del tutto legali) usati dall’organizzazione presente ed attiva in 35 stati dell’Unione. Catherine scrolla le spalle e tira dritto. Raffica di tweets dalle solite celebrity liberal che se la prendono con True the Vote, da Cher a qualche altra stellina di Hollywood. “Bigotti, razzisti, non vogliono che i neri votino”. Stessa reazione di Catherine, che continua come se niente fosse. Il microfono passa poi ad un blogger politico di Houston, evidentemente molto seguito. Da queste parti un giornalista locale può mettersi in proprio e guadagnare abbastanza per non dover elemosinare da nessuno.
Proprio un altro mondo, in Italia non ci riescono che pochissimi fortunati. La processione di candidati a giudice inizia. Incredibilmente non mi addormento. Tutti con almeno 10 anni di esperienza come avvocati, molti giudici spazzati via dalla cosiddetta “sweep” obamiana che cercano di tornare in sella, giudici nominati dal governatore Rick Perry dopo che il predecessore è andato in pensione che cercano la conferma, c’è persino una candidata democratica (di colore) che evidentemente non teme niente nel presentarsi di fronte a quella che, a giudicare da quello che dicono i media, dovrebbe essere una platea di razzisti, bigotti, probabilmente armati fino ai denti e, chissà, sostenitori di un ritorno alla schiavitù. Colleghi italiani ed europei, venite da queste parti.
La candidata democratica a giudice si è presentata come tutti altri, ha ricevuto forse più applausi degli altri, nessuno ha fiatato durante la sua breve presentazione, ha salutato, è scesa dal palco e non è successo niente di niente. Ecco i vostri razzisti, ecco i vostri bigotti assetati di sangue. Vergognatevi, se ne siete ancora capaci. La processione di candidati dura parecchio, nonostante tutti riescano a limitarsi nei 90 secondi (roba che farà morire d’invidia chiunque in Italia abbia provato ad organizzare un evento pubblico) ma quasi nessuno se ne va. Arrivano le otto e qualcuno non aspetta, si alza ed esce. Alle otto e dieci l’ultimo candidato presente chiude il suo discorso e Catherine torna sul palco per dare il via alla questua, fatta (ovviamente) con fiammanti cappelli Stetson. Ognuno, incluso il solitamente parsimonioso sottoscritto, contribuisce. Mi avevano detto prima che la media è cinque dollari.
Mi adeguo volentieri. Due rapidi conti, circa 300 persone ogni settimana, 6000 dollari al mese, a malapena abbastanza per pagare l’affitto, comunque un introito quasi sicuro che può fare la differenza. Alla fine della questua, promozione per i prossimi appuntamenti con qualche pezzo grosso, che si prenderà l’aereo da stati lontani come la Virginia per arrivare ad Houston ed avere l’onore di parlare in uno degli incontri regolari più seguiti dell’universo teapartygiano americano. Ite, missa est. La cerimonia civile finisce qui, un’altra settimana se n’è andata, aumentando la reputazione e l’efficienza dell’azione dei King Street Patriots. Catherine scende dal palco e si mischia alla folla di candidati interessati a cercare il consenso e l’appoggio degli attivisti che non scappano via, ma restano volentieri.
Il sottoscritto esce per l’ennesima pausa nicotina, ma invece di andare via con la coda tra le gambe, torno al posto di combattimento. Non esiste che mi sia fatto centodieci miglia e torni indietro senza avere la mia intervista. Mi rimetto davanti alla porta dell’ufficio di Catherine, determinato ad avere i 15 minuti che mi sono stati promessi. Alla fine, un tecnico del suono esce dall’ufficio: gli chiedo se Catherine sia libera. Incredibilmente lo è. Riesco ad entrare e posso finalmente iniziare l’intervista. Com’è andata lo saprete nella prossima puntata dello sgangheratissimo diario americano, dedicata esclusivamente all’intervista con Catherine Engelbrecht, madre e moglie che invece di giocare a burraco sta mettendo in crisi la strapotente e non tanto gioiosa macchina da guerra del partito democratico. Alla prossima puntata.