Diario Mondiale/Il vero errore di Cesare
Mentre si dirigeva in sala stampa deve aver pensato che poche parole di circostanza sarebbero bastate per far scendere sul suo nome la scure dell’oblìo. Invece no: non in Italia. Questo paese ha bisogno di una Piazzale Loreto permanente in cui appendere a testa in giù il capro espiatorio del momento. Per Prandelli non si sono fatte – e non si faranno – eccezioni. Giancarlo Abete al suo fianco rende il paragone con il celebre piazzale solo un po’ più immaginifico: è l’uomo che ha rinnovato il contratto all’allenatore prima di sapere come sarebbe andata la trasferta carioca, quello che si dimette ma non se lo fila nessuno.
Cesare, invece, sta lì e si lascia cullare dal solito, disgustoso, tiro al bersaglio. Ha sbagliato a cambiare modulo, secondo quelli per cui bisognava cambiare modulo dopo il Costarica. E ha sbagliato a mettere Immobile, secondo gli altri, quelli che “non puoi tenere in panchina uno come Immobile”. Il calcio è una scienza esatta se guardata attraverso il bianco e nero della vittoria e della sconfitta. Se ci metti il grigio dei pareggi diventa più opinione che scienza. Se ci aggiungi il colore delle recriminazioni allora diventa una cosa a metà tra l’auspicio di uno sciamano e un manuale di yoga.
Cesare Prandelli ha commesso un solo, grande, gigantesco errore. Ha sperato che assecondare l’onda lo avrebbe messo al riparo dalle critiche. Gli chiedevano di togliere Paletta e lui lo ha fatto, la gente voleva Immobile e lui si è adeguato, meglio la difesa a tre “come la Juve” e allora dentro Bonucci-Barzagli-Chiellini. Avrebbe dovuto metterci la faccia e continuare a fare le cose che lui riteneva di fare. Non doveva guardare in faccia nessuno, né leggere gli editoriali dei giornaloni, né i “Buongiorno” di Gramellini. Sibilando, al caldo del Brasile, un poco elegante “Buongiorno un cazzo”.
Solo così la sua conferenza stampa finale avrebbe avuto un senso perché avrebbe messo la propria faccia sulle proprie scelte. Invece tante, troppe volte ha messo la faccia sua sulle scelte di altri. E così siamo a discutere del sesso degli angeli e a scoprire l’ovvio: che Balotelli non vale umanamente un’unghia di Luca Toni (non ho detto Garrincha), che non essendo quelli del “calcio totale” è meglio se l’Italia fa sempre la stessa cosa e non cambia troppo in poco tempo, che Immobile – come altri in passato – è lo straordinario bomber di una squadra che non è andata nemmeno in Europa League (sul campo).
Prandelli si è affezionato troppo al suo ruolo di ambasciatore del calcio italiano, di salvatore dell’immagine e dell’etichetta, sperando a colpi di codici etici e di morbidezza, di poter plasmare una squadra in grado di vincere. Gli italiani in condizioni normali non vincono, non ne sono capaci. Servono condizioni straordinarie e un nemico esterno: Spagna 1982 con il silenzio stampa e la guerra ai giornali o Germania 2006 con Calciopoli. Nel mezzo le migliori nazionali – e quelle più vicine all’oro – sono state guidate da gente come Sacchi e Vicini che faceva quel che sapeva essere giusto fare, anche se non piaceva troppo agli inviati della rosea.