La Scozia e noi
Il referendum scozzese è l’evidente dimostrazione che il dibattito sull’indipendentismo o sull’autonomismo può essere perfettamente inutile se non ci occupiamo di come riempire gli eventuali contenitori di cui parliamo.
Per un mesetto buono la parte più chiassosa del centrodestra nazionale e regionale (essenzialmente la Lega) ci ha ammorbato con i suoi appelli al voto per l’indipendenza scozzese, incurante di cosa ci fosse dietro quel voto e di che cosa volesse diventare la Scozia. L’idea di Salmond, leader indiscusso del fronte del sì e indiscutibilmente uomo di una sinistra che non ambisce a governare più nemmeno in Italia (ideologicamente ambientalista, chiese l’impeachment di Tony Blair per la Guerra del Golfo: andrebbe ricordato ai liberali di casa nostra) era ed è quella di dare vita ad una nazione molto più europea nel senso deteriore e burocratico del termine di quel che già non è oggi. Su questo, con ogni evidenza, gli indipendentisti di casa nostra non devo essersi chiariti.
Ma al netto di queste valutazioni che restano per me fondamentali, rimane il senso di un risultato estremamente chiaro: la Scozia ha detto no, con un’affluenza altissima e un risultato omogeneo che lascia poco spazio a discussioni e dibattiti. E non ha rifiutato l’autonomia, quanto più l’indipendenza ideologica ed urlata di chi ha trasformato questo referendum in una decisione slegata dal principio di realtà e dal buonsenso. Perché la Scozia ha oggi un’autonomia che nessuna regione europea si sogna nei confronti dello stato centrale: vive con dosi massicce di devolution e al tempo stesso beneficia di tutti gli straordinari fondamentali economici del Regno di Sua Maestà, sia dal punto di vista monetario, che sanitario, che previdenziale.
C’è di più: continua ad essere sovra-rappresentata nel parlamento nazionale (determinando una distorsione tale che rende ai Conservatori praticamente impossibile vincere le elezioni a meno di margini a doppia cifra) e a votare su leggi e provvedimenti che riguardano la sola Inghilterra, quando il contrario, in forza della devolution, non avviene. Se gli statisti di casa nostra avessero buttato un occhio oltremanica un po’ più spesso negli ultimi anni si sarebbero anche accorti di come si può ottenere più autonomia senza scatenare guerre di religione, ispirandosi al banale principio di responsabilità ed evitando di mettere in discussione quello che in discussione non può essere messo.
Il principio di autodeterminazione dei popoli è un fatto giuridico e culturale straordinario: ieri la Scozia si è autodeterminata e ci aspettiamo che chi ieri inneggiava all’autodeterminazione e all’indipendentismo oggi abbia l’onestà intellettuale di ammettere che ha vinto l’autodeterminazione di chi sa che in un tempo così complesso ci sono modi diversi di esaltare le piccole patrie che non quelli di piantare nuovi, inutili confini e nuove, inutili divisioni.
p.s: un’ultima, rapidissima, nota sul dato elettorale e su quanto anche il mio amico Omar Monestier segnala. La sfida città/periferia è qui un po’ diversa che altrove. Le prime dieci città votano al 54% per il no, le prime 4 (Glasgow, Edimburgo, Aberdeen e Dundee) stanno al 53%. Solo Glasgow e qualche sobborgo segnalano numeri in controtendenza. E’ quindi un tema che riguarda Glasgow e poco altro piuttosto che un ragionamento, che esiste invece in Italia e negli Stati Uniti, tra urban/suburban. Rimane poi la nota che vale per il Friuli: non si può fare uno Stato senza la sua capitale. Edimburgo ha scelto il no con il 61.1% e ha guidato, al solito, la nazione.
(da “Il Messaggero Veneto“)