Ho visto Dachau
Un freddo bestiale. E neve. E un enorme cielo bianco. Ma, quando attraversi il cancello del campo di concentramento di Dachau, il cappello, istintivamente, te lo togli. Tanto non è per la temperatura che ti sale un brivido lungo la schiena. E’ grande. Troppo grande per capirlo a colpo d’occhio. Il muro, il fossato, il filo spinato, le torrette disseminate lungo il perimetro, ci vuole tempo, bisogna guardare la mappa. E la mappa ti dice che quel gigantesco piazzale di fronte ad un caseggiato a forma di ferro di cavallo che ne ghermisce una parte, con un altro caseggiato lungo e stretto dietro la costruzione principale, cui si accede lateralmente, e ancora le casette parallele l’una all’altra, diciassette file separate solo da un corridoio esterno infinito, che delineano il piazzale dal lato opposto, tutto questo non è che quella minuscola parte del campo in cui i deportati, dopo essere stati schedati, defraudati, spogliati, rasati, lavati, numerati e annullati dentro un pigiama a righe, mangiavano e dormivano – se così si può dire – e schizzavano fuori a qualunque ora del giorno e della notte con qualsiasi temperatura e condizione atmosferica per quelle adunate continue, che si trasformavano in tortura quando mancava qualcuno all’appello e nessuno poteva muoversi per ore ed ore.
Io mi ci sono messa al centro del piazzale. In piedi. Ferma. Ma dopo tre o quattro minuti ero già rannicchiata dentro i miei vestiti caldi, e sotto il cappello la sciarpa e i guanti tremavo come una foglia. Allora ho cominciato a camminare in lungo e in largo. Sono entrata nel caseggiato a forma di ferro di cavallo, oggi un museo che racconta una storia lunga dodici anni di potere nazista e contiene qualche effetto personale ritrovato, fotografie, documenti, lettere, lame da barba, pettini, piccole cose. E sono entrata nei dormitori, quegli stanzoni geometrici, con quelle grandi cassette di legno, anch’esse perfettamente geometriche ed allineate, che per necessità di sintesi la storia ha chiamato letti. Sei/settemila posti al massimo, arrivarono a condividerli in duecentomila. Allora ho attraversato di nuovo il piazzale, e mi sono diretta al caseggiato lungo e stretto posizionato dietro quello principale, accedendo ad un piazzale molto più piccolo e più macabro: quello delle punizioni e delle esecuzioni. La parte esterna del bunker dove in tanti hanno scontato la prigionia della prigionia. Le torture. Le celle divise in tre parti in modo che la loro superficie non superasse i 70x70cm. Quelle dove per giorni non potevi accucciarti o sdraiarti. Quelle senza luce e senza speranza. E te ne vorresti andare, ma c’è ancora tanto da vedere.
Devi percorrere tutto il perimetro del lato lungo per accedere ai forni crematori. Forni con le pale e le condutture per la raccolta delle ceneri, e poche stanzette che si susseguono le une alle altre come le celle di un alveare. Da percorrere velocemente, salvo poi fermarsi quando si finisce in una stanza dal soffitto più basso, diversa, buia, con dei bocchettoni che sembrano soffioni per la doccia. Doccia di gas. A quel punto te ne devi andare. Sono passate ore, i piedi non li senti più e la testa è vuota. Ma è riattraversando quel cancello, recentemente profanato e privato della targa con la scritta “Arbeit macht frei”, che ti accorgi di quanto fosse ampio e organizzato il campo. E’ solo allora che tiri su gli occhi e ti guardi meglio intorno. Ed è allora che vedi le case. Le case fuori, le case degli abitanti di Dachau, una cittadina a pochi chilometri da Monaco. Quasi un villaggio con un lager lungo e largo chilometri costruito nel mezzo del centro abitato. Orrore.
Ma non li vedevano, dalle loro finestre, gli abitanti di Dachau, treni su treni arrivare pieni e ripartire vuoti? Non li vedevano uomini donne e bambini diventare, giorno dopo giorno, spettri dell’umanità? Non li vedevano scomparire come se non fossero mai nati? Cosa facevano, dov’erano, a cosa pensavano i tedeschi di Dachau? Non potevano non sapere. E proprio perché sapevano, forse, erano terrorizzati. Terrorizzati da ciò che loro stessi avevano fatto, prima, permettendo ad Hitler di conquistare il potere con il loro consenso, e, dopo, dalle conseguenze drastiche di qualsiasi atto di ribellione al Reich. Avevano paura. Una paura fottuta. Ma la paura, per quanto legittima e comprensibile, non lava la colpa. E i tedeschi lo sanno così bene che vivono e ricordano la Shoah come una colpa collettiva nazionale. Senza scuse, senza giri di parole, senza psicodrammi. Con dignità. Questo pensavo, in metropolitana, di ritorno da Dachau verso Monaco. Al presente, pensavo. Al ruolo della paura nella Storia. Alla paura tremenda che abbiamo, oggi, di un nemico che stentiamo persino a chiamare per nome. Ora come allora. Quando si dovette scegliere se sacrificarsi subito per fermare Hitler, o aspettare, temporeggiare, blandirlo con qualche concessione, chiudere un occhio e sperare che la sua fame si spegnesse o che ci divorasse per ultimi. E così siamo morti in sessanta milioni. La paura ci ha seppelliti a mazzi.
Eppure quella guerra servì. Servì non solo a ridefinire i termini della convivenza globale, ma a distillare una volta per tutte una serie di valori che l’Occidente, da allora, considera universali. Cioè definitivi. Imprescindibili. Inalienabili. Validi per tutti. Ma non è così. Dopo soli settant’anni quei valori per noi così irrinunciabili sono carta straccia per buona parte del globo. Abbiamo provato ad esportarli e abbiamo fallito. Abbiamo provato a facilitarne l’affermazione nei paesi arabi e abbiamo creato un mostro. E già da tempo, in fondo, abbiamo rinunciato a difenderli anche in Occidente. Per paura. Quella che ha impedito a chiunque nel mondo di vedere il film che è costato la vita al regista Theo Van Gogh; quella per cui, con una ipocrisia stellare, abbiamo manifestato per Charlie Hebdo e quella libertà di espressione che ogni giorno umiliamo, schiavi del politically correct, anch’esso figlio della paura; quella per cui ci inventiamo libertà futili e battaglie assurde che mortificano, senza poterli sostituire, quegli stessi valori; quella per cui dedichiamo giornate alla memoria e produciamo quintali di retorica senza guardare in faccia la realtà. E la realtà, ad esempio, è che nell’arco di circa dodici mesi settemila ebrei hanno lasciato il loro paese d’origine, la Francia. Perché? Perché nell’ultimo decennio l’integralismo islamico, in Europa, ha colpito soprattutto gli ebrei, e nessuno si è preoccupato. Nessuno ha denunciato la crescita costante dell’antisemitismo, anzi, e stampa ed istituzioni sono state ben attente a non dare troppo risalto a fatti anche atroci come il sequestro e l’uccisione di Ilan Halimi. Questo sentimento antiebraico si è rivelato l’appeasement dell’Europa, la sua rinuncia alla difesa di quei valori di cui tanto blatera ma che è pronta a sacrificare nella speranza di non essere aggredita. Speranza definitivamente sfumata con la strage di Charlie Hebdo.
I rapporti tra l’Unione Europea e Israele stanno rapidamente deteriorandosi, e anche quelli con l’alleato di sempre, gli Stati Uniti, sono ai minimi storici. L’atteggiamento dell’Occidente in generale, verso lo Stato ebraico, è sempre più quello di chi ritiene la creazione di Israele un errore o comunque una parentesi storica. Ma ora sappiamo che anche chiudendo gli occhi dinanzi alla violenza contro quelli che pensiamo siano più nemici di noi, il nemico non si sazierà. Lui vuole noi. Vuole l’Occidente che per paura di morire è pronto a rinunciare, un pezzo dopo l’altro, a se stesso. A cominciare dai suoi ebrei, di cui inutilmente ricorda lo sterminio nazista.