GOP 2016. Le pagelle del secondo dibattito
Secondo appuntamento televisivo, nella notte di ieri (ora italiana), per i candidati alla nomination repubblicana. L’evento, organizzato e trasmesso dalla CNN, si è svolto nei locali della “Ronald Reagan Presidential Library”di Simi Valley, una cittadina californiana a circa 50 km da Downtown Los Angeles, praticamente a metà strada tra Santa Monica e Santa Barbara. Una location più raccolta rispetto alla Quicken Loans Arena di Cleveland (Ohio) in cui si era svolto il dibattito del 6 agosto (circa 500 le persone presenti tra il pubblico), ma che poteva vantare una scenografia d’eccezione. Proprio dietro al palco dei candidati, infatti, faceva bella mostra di sé lo splendido Boeing 707 utilizzato come Air Force One durante gli anni dell’amministrazione Reagan. Ecco, secondo il nostro insindacabile (ma fallibile) giudizio, come si sono comportati gli undici aspiranti alla nomination del GOP. I giudizi sono in ordine crescente.
RAND PAUL 5
Si fa un gran parlare della bizzarra capigliatura di Donald Trump, ma i capelli disordinati (e appiccicosi) di Rand Paul non sono molto meglio. Notazioni tricologiche a parte, il figlio sensato della “Ron Revolution” non riesce a brillare particolarmente. Insipido perfino su quello che dovrebbe essere uno dei suoi cavalli di battaglia (la “flat tax”), si riprende leggermente su “medical cannabis” e politica estera, temi – soprattutto il secondo – su cui però sembra irrimediabilmente fuori sincronia rispetto al comune sentire della base repubblicana.
SCOTT WALKER 5,5
Precipitato da “front runner” a “long shot” in poco più di un mese, il governatore del Wisconsin è forse il candidato a cui The Donald ha succhiato più ossigeno. Proprio per questo, a differenza che a Cleveland, in California Walker aveva bisogno di una prestazione maiuscola per ridare slancio alla propria campagna e rassicurare i potenziali finanziatori. Oggettivamente, Scott non è riuscito a raggiungere l’obiettivo. È partito attaccando frontalmente Trump (“We don’t need an apprentice in the White House – we have one right now”), ma poi è del tutto scomparso per almeno un terzo del dibattito, ignorato dai moderatori della CNN. Peccato perché – quando interviene – le sue proposte di “common sense” sembrano, appunto, parecchio sensate. Buono su Obamacare e “minimal wage”, ma troppo poco brillante per invertire un trend che sembra ormai inesorabilmente destinato al ribasso.
MIKE HUCKABEE 6
Nella prima parte del dibattito sembra lo “zio buono” che si trova sul palco quasi per caso. Gli mancano solo i popcorn: ha una parola buona per tutti e si gode serenamente lo spettacolo, senza incidere. Si infiamma, come al solito, sui temi che gli sono più cari (aborto e “gay marriage”) e il suo intervento su Kim Davis è semplicemente fenomenale. Tra i contendenti sul palco, sembra sempre uno dei più rilassati, probabilmente perché lui stesso è conscio di non avere alcuna speranza di vittoria. Il suo prossimo show televisivo, però, sarà sicuramente eccezionale.
MARCO RUBIO 6+
Meno in forma rispetto al dibattito di Cleveland. Molto sottotono all’inizio, si riprende benino sulla politica estera (si vede che ha studiato molto), brillando per precisione almeno quanto The Donald si distingue per superficialità. Sembra però troppo “scripted” sui temi dell’immigrazione (qui, probabilmente, ha studiato troppo), che restano il suo vero tallone d’Achille rispetto alla base del partito. La sua storia personale (è il figlio di un immigrato cubano che ha lottato tutta la vita contro la povertà per raggiungere il sogno americano) è commovente e significativa, ma più adatto ai ritmi di un comizio elettorale che a quelli, serrati e frenetici, di un dibattito televisivo con undici candidati. Comunque sufficiente, anche se può fare molto meglio.
TED CRUZ 6,5
Lo ripetiamo ancora una volta: Cruz è con ogni probabilità il candidato (insieme a Carson) con il quoziente d’intelligenza più alto tra quelli che corrono per la Casa Bianca (democratici compresi). Ma le sue evidenti abilità oratorie non si accompagnano ad una capacità “naturale” di stabilire un rapporto empatico con i propri interlocutori. Questo rende le performance del senatore texano, impeccabili sotto il profilo formale, un po’ troppo fredde e impersonali per un pubblico, come quello di oggi (non solo negli States), abituato ai fuochi d’artificio del “celebrity circus” contemporaneo. Detto questo, la sua è stata una prestazione solida e retoricamente efficace. Perfetto su Planned Parenthood, Cruz è l’unico dei candidati sul palco (sempre insieme a Carson) a non commettere l’errore di partecipare al Trump-bashing generalizzato scatenato (intenzionalmente) dai moderatori della CNN. Se avesse qualche speranza di vincere le elezioni generali, Cruz potrebbe essere il presidente “all’antica” perfetto per affrontare le sfide che attendono gli Stati Uniti. Ma non accadrà mai.
JEB BUSH 6,5
Performance non eccelsa, ma solida, dell’ex governatore della Florida (ed erede della dinastia che ha dato all’America due degli ultimi quattro presidenti). Parte piano, ma cresce costantemente. Molto bene sui temi pro-life, in cui fa valere le proprie impeccabili credenziali, se la cava bene anche sul tema dell’immigrazione, in cui però è confinato su posizioni (come nel caso del “common core”, gli fa maliziosamente notare Trump) molto distanti da quelle della stragrande maggioranza dell’elettorato repubblicano. Sfrutta al meglio l’assist involontario di The Donald sull’Iraq per strappare alla platea l’applauso più fragoroso della serata, dedicato al fratello George W. Resta uno dei candidati più strutturati del lotto, oltre a quello capace di muovere meglio un fundraising milionario, ma prima o poi dovrà risolvere i nodi, profondi, che lo frenano nel rapporto con la base del partito.
DONALD TRUMP 6,5
Il “fenomeno” mediatico di questa lunga campagna elettorale si limita inizialmente a qualche schermaglia dialettico (contro Rand Paul, per esempio), ma nella prima parte del dibattito resta abbastanza sulle sue, attento a non cadere nelle trappole disseminate dai CNN Boys. Poi, appena si scivola sull’immigrazione, comincia a volare. Parla con scioltezza, rigorosamente a braccio, e riesce a cavarsela brillantemente fino allo “scivolone” sull’Iraq. Vantandosi di essersi opposto fin dal principio alla guerra del 2003, The Donald riesce contemporaneamente a rivitalizzare Jeb e a far applaudire George W., anche se i suoi “gimme five” con Carson e Bush resteranno negli annali della politica statunitense. Alla fine, tutto sommato, esce dallo scontro abbastanza indenne, anche se visibilmente annoiato. Per lui questi dibattiti sono soltanto una seccatura, la sua campagna elettorale si svolge in un altro universo. E la sta vincendo.
CHRIS CHRISTIE 6,5
È un vero peccato che il governatore del New Jersey non abbia alcuna speranza di conquistare la nomination del GOP (non ne ha dal giorno del suo abbraccio in mondovisione con Obama dopo l’uragano Sandy), perché il Christie visto alla Reagan Library è sembrato parecchio in forma. È il primo a ribellarsi al format “repubblicano contro repubblicano” imposto con astuzia dalla CNN, per attaccare frontalmente Obama, la Clinton e i democratici. Splendido su 9/11 e Iraq, combattivo al punto giusto, a lungo prova a fare l’adulto della situazione in un dibattito che troppo spesso rischia di scivolare in una parata di piccoli scontri personali. In quello che è forse il momento più basso della sua carriera politica (il suo indice di gradimento in New Jersey è ai minimi storici), tenta di risollevarsi con orgoglio: “I am a Republican in New Jersey. I wake up every morning as an outsider”. Non gli basterà assolutamente, ma è stato bello vederlo provare.
JOHN KASICH 7-
In un campo affollato da conservatori “duri e puri”, il governatore dell’Ohio riesce, con successo, a ritagliarsi il ruolo di conservatore “pragmatico”, distinguendosi spesso dagli avversari. Spesso è l’unico che ha il coraggio di affrontare i temi da un punto di vista diverso da quello di tutti gli altri (anche se spesso si tratta di un punto di vista molto distante da quello del repubblicanesimo mainstream). Se la cava molto bene con domanda (insidiosa) sullo shutdown a Washington: non a caso era il vice di Newt Gingrich nel Congresso degli anni Novanta. Perde però l’occasione di affondare il colpo su Hillary, preferendo raccontare al pubblico qualcosa della sua lunga carriera politica. Non proprio una mossa astuta, visto il credito di cui i “politici di professione” godono attualmente tra gli attivisti del GOP. Legge troppo dagli appunti (fastidioso), ma riesce comunque a sfoderare un’altra performance di alto livello.
CARLY FIORINA 7
Estremamente “costruita”, ma davvero molto efficace la performance dell’unica donna in gara. L’ex CEO di Hewlett Packard è la novita del GOP Pack rispetto a Cleveland, ma si vede subito che si è meritata la promozione in “serie A”. Molto brava nel gestire il suo scontro con Trump, che tutti gli osservatori casual attendevano con ansia, è feroce al punto giusto con Hillary (“Viaggiare per il mondo è un mezzo, non un obiettivo in sé”) e gelida al punto giusto con The Donald (“Credo che tutte le donne americane abbiano perfettamente compreso le parole di Trump”). Resta però l’impressione di fondo che Carly non sia mai particolarmente coinvolta a livello emotivo. E non convince fino in fondo quando racconta la sua (controversa) esperienza come amministratore delegato di HP. Ma non si può negare che la sua sia stata una prestazione ottima destinata forse a regalarle un ulteriore “boost” nei sondaggi.
BEN CARSON 7+
Intelletto superiore (insieme a Cruz), è per carattere l’anti-Trump ideale, anche se si guarda bene dall’attaccarlo direttamente. Come a Cleveland, il suo è probabilmente il migliore tra i “final statement”. Ma riesce comunque a rimanere calmo ed estremamente “cool” per tutta la durata del dibattito, senza offrire picchi retorici sensazionali ma mantenendosi sempre su un livello qualitativo più che discreto. Dall’alto della sua professione, potrebbe affondare il coltello nella piaga dopo l’intervento di Trump sulla connessione tra vaccini e autismo, ma preferisce non calcare troppo la mano, esercitando come suo solito una pacata arte della moderazione che – almeno nei toni – resta senza dubbio la migliore delle sue caratteristiche. The Best.
P.S.
CNN 4+
Con tutto il rispetto possibile per Hugh Hewitt (che infatti sembrava un pesce fuor d’acqua), i due moderatori principali della CNN – Jake Tapper e Dana Bash – hanno passato più di tre ore nel disperato tentativo di far litigare tra loro i candidati repubblicani. Va bene l’ossessione per lo share televisivo, ma il Clinton News Network stavolta ha davvero oltrepassato i confini della decenza. E la cosa più triste è che i candidati del GOP – a parte qualche rara eccezione – sono caduti nella trappola. Il “+” è per la scenografia con l’Air Force One di Ronnie, ma è tutto merito di Nancy Reagan.
LE PAGELLE DI SIMONE BRESSAN
Paul 4,5
Trump 5
Walker 5
Rubio 5,5
Huckabee 6
Christie 6
Cruz 6
Bush 6
Carson 6,5
Kasich 7
Fiorina 7,5
(da Data24News)