GOP 2016. Le pagelle del terzo dibattito Ott29

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GOP 2016. Le pagelle del terzo dibattito

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Terzo appuntamento televisivo, nella notte di ieri (ora italiana), per i candidati repubblicani alle elezioni presidenziali del prossimo novembre. Ad organizzare l’evento, che si è svolto alla University of Colorado di Boulder, è stata CNBC, la rete di business news via cavo (e satellite) di NBC. Ecco – secondo noi – com’è andata. I voti sono in ordine crescente.

RAND PAUL  

5-

Assonnato, annoiato, annacquato. Se questo è lo spirito con cui il senatore del Kentucky pensa di poter rimettere in piedi la sua campagna, si sbaglia di grosso. Invisibile per tutta la prima metà del dibattito, mostra un vago cenno di risveglio solo quando si comincia a parlare della Fed, ma poi si riaddormenta immediatamente. Costretto a chiedere la parola per illustrare il suo piano fiscale, riesce ad essere efficace (e breve) sulla riforma della social security. Troppo poco, troppo tardi. (ANDREA)

5

Non ci sono più i Paul di una volta. Rand non è Ron e questo vale nel bene (più moderato e nettamente più eleggibile) e nel male (rischia di non vedersi). Ieri sera era in serata “male”: è sembrato noioso e fuori posto per più di metà dibattito, risalendo nel gradimento soltanto quando ha ripreso a parlare di temi cari a suo padre come banca centrale e welfare. Non regge l’eredità del vecchio e si vede, è un ottimo senatore e un mediocre candidato presidenziale.  (SIMONE)

JEB BUSH  

4

Chi scrive ha passato l’intera settimana ad auto-convincersi che al momento giusto, quasi fosse Inzaghi, l’erede della dinastia che ha fatto il Partito Repubblicano avrebbe piazzato la zampata. Ieri doveva essere quella sera, un po’ perché i media avevano deciso così un po’ perché Jeb arrivava al dibattito dopo una delicatissima riunione con i suoi big donors. E’ andata malissimo e tutto si riassume nel siparietto con Marco Rubio: lo attacca senza motivo, ne ottiene una risposta spiazzante dal suo ex protegé e butta alle ortiche la dimensione positiva e ottimistica che aveva accompagnato sin qui la sua campagna. Prima di oggi mancava il messaggio, da oggi manca del tutto anche il candidato. Tranne tsunami imprevisti, la sua corsa finisce qui. (SIMONE)

5

Comincia attaccando a freddo Trump (senza troppo successo) e poi attaccando Rubio (che ne esce meglio di lui). Avrebbe bisogno di una performance al di sopra della media, visto che ormai non è neppure più il candidato preferito dall’establisment, ma non esce mai fuori come potrebbe. Perde via via mordente nel corso della serata, forse frustrato dal fatto che nessuno dei suoi “crescendo” retorici (molto costruiti ma a volte efficaci) riesce a scaldare la platea, che ogni volta lo lascia appeso in un imbarazzante silenzio. (ANDREA)

JOHN KASICH  

6-

Un passo indietro, per il governatore dell’Ohio, rispetto agli ultimi dibattiti. Il suo piano è chiaro: apparire come l’unico candidato responsabile del gruppo e, contemporaneamente, alzare i toni dello scontro per sottolineare la propria “unicità”. Attacca i concorrenti – e il GOP in genere – sui tagli alle tasse e al Medicare, ma poi passa gran parte del tempo a glorificare la propria lunga esperienza politica e perfino il proprio passato da banchiere. Non sembra, a prima vista, esattamente il ciclo elettorale più adatto per una strategia del genere. (ANDREA)

6,5

E’ nettamente fuori sincrono rispetto alla storia ma la sua parte la fa con dignità. A differenza di Bush non cambia strategia e continua a cercare di accreditarsi come l’unico candidato credibile che qualcosa in vita sua ha governato. Lo ripete quasi ossessivamente e nella notte in cui Jeb si spegne come una candela sotto al diluvio, può dire senza grossi patemi di essere il governatore migliore di quelli rimasti. Non vincerà la nomination ma come vice-presidente sarebbe un’ottima scelta. (SIMONE)

MIKE HUCKABEE

6

Lo “zio buono” (e un po’ strano) del GOP è sempre il solito. Simpatico, piacevole e vagamente fuori posto. Grandissimo quando respinge il tentativo dei moderatori di costringerlo ad attaccare Trump, bizzarro quando parla di healthcare (forse mi sono perso qualcosa, ma il succo mi è sembrato più o meno: per risparmiare senza tagliare servizi, basta sconfiggere il cancro e le altre malattie mortali che affliggono il pianeta). Per essere un candidato che in realtà non corre per la Casa Bianca, comunque, se la cava piuttosto bene. (ANDREA)

6

Avete presente lo zio simpatico che a Natale racconta barzellette sconce con davanti i nipoti di 4 e 6 anni? Eccolo qui. Così apertamente simpatico che si prende il lusso di non attaccare nessuno, di non rispondere alle domande, di farsi ampiamente i fatti propri mentre gli altri bisticciano. Se alla fine prendesse l’amata chitarre e facesse partire un riff dei suoi sarebbe da Oscar. (SIMONE)

BEN CARSON  

5,5

Nella sua vita ha fatto cose decisamente più importanti e ci tiene a fartelo capire. Non gliene frega molto di quel che accade sul palco, così quando si parla dei temi della serata cerca di scivolare via con la faccia stranita. Sulla flat tax lo trattano male e lui si tratta peggio: non si capisce bene cosa intenda dire, fare o anche soltanto perché è su quel palco invece che in sala operatoria. Va peggio del solito perché i conduttori sono ostili e l’argomento è l’economia. Rimane quello che inviti al barbecue in cortile e porta il vino buono: non è poco in questa gabbia di matti. (SIMONE)

6+

Un po’ vago sui dettagli della sua visione economica (che però era l’argomento principe della serata), il Dottor Carson continua a essere il Dottor Carson. E il fascino che esercita su una parte dell’elettorato repubblicano è qualcosa che i liberal (e i mainstream media) non potranno mai comprendere. Ammette in diretta un suo errore – raro, rarissimo – e mette a segno un paio di buoni colpi su flat tax e cultura del politicamente corretto. Emana costantemente la sensazione di essere una “brava persona”. E questo, alla lunga, potrebbe anche nuocergli. Il suo appello finale è stato uno dei più appplauditi, ma complessivamente è stato meno brillante rispetto al solito. (ANDREA)

CARLY FIORINA 

6

Mezzo voto in più perché ci ricorda che le donne repubblicane sono meglio della donna democratica, però onestamente non ci siamo. Se c’era un momento in cui provare ad accelerare era questo. E’ salita e ridiscesa nei sondaggi come neanche a Gardaland, eppure lascia sempre l’impressione che forse brava lo è anche, ma per guidare un paese (e che paese!) serve altro. (SIMONE)

6,5

Cerca di correre come una outsider (evidentemente ha uno staff di prim’ordine) e non perde un’occasione per attaccare Hillary (“sono il suo incubo peggiore”). Tutto perfetto, almeno in teoria, perfino la sua difesa d’ufficio degli anni trascorsi alla Hewlett-Packard (che forse ha convinto i meno informati, cioè la stragrande maggioranza degli elettori). Ottimo e ben argomentato il segmento sul crony capitalism, che andrebbe registrato e trasmesso nelle scuole. Ma c’è qualcosa di artificiale e robotico in Carly che non risce a convincermi fino in fondo. Resta, comunque, abbondantemente oltre la sufficienza. (ANDREA)

DONALD TRUMP  

7

E’ “il” dibattito. Ruota tutto attorno a lui. Novello Ennio Doris, disegna cerchi attorno a cui discutere e i candidati ci cascano. Ci è cascato Walker al secondo dibattito, ci è cascato Bush ieri sera. Lo attaccano, più perché si deve che perché ci credono. E lui resta lì, nel mezzo della scena, a dare le carte. Quel che dice è inascoltabile e probabilmente inascoltato. Ma il tema non è quel che dice è chi lo dice. (SIMONE)

7

Con grande scorno di chi, tra i simpatizzanti del GOP, sogna un candidato “normale”, The Donald continua a crescere dibattito dopo dibattito. Meno isterico che all’inizio della campagna elettorale, mette in riga Kasich in dieci secondi netti e poi si diverte per due ore. Che i mainstream media siano terrorizzati dalla sua presenza si vede fin dalla prima domanda che gli viene rivolta, ma stavolta sull’argomento trova il supporto compatto di quasi tutti gli altri candidati. Trump, con il passare del tempo, è riuscito anche a perfezionare i propri talking point sull’immigrazione, rendendoli meno sgradevoli. Stratosferico sul gun control (“I’m unpredictable”). Il suo appello finale – in cui svela i retroscena dei negoziati tra candidati e CNBC – è semplicemente un colpo di genio, probabilmente improvvisato. Poi, nella sostanza delle cose, i suoi difetti sono troppi per essere elencati in questa sede. (ANDREA)

TED CRUZ 

6,5

E’ con Christie il miglior debater del lotto. Sul tema del fisco si scatena letteralmente. Preparato, pungente, mai banale. Ha un solo problema che gli vale mezzo voto in meno in questa valutazione: lo guardi e sembra tutto meno che un presidente degli Stati Uniti. Potrebbe essere uno dei cattivi di True Detective, forse un petroliere alla ricerca di pubblicità in Mad Men ma certamente non quello che va alla Casa Bianca e tratta con i leader mondiali.  (SIMONE)

7+

Molto efficace per tutta la durata del dibattito, è sembrato perfino meno spigoloso del solito. Perfetto sulle ipotesi di riforma fiscale, salta come un campione sul carro del “double standard” lanciato da Rubio e se ne appropria senza sforzo, trascinando con sé la platea. Resta uno dei candidati migliori (senza dubbio il più preparato) e potrebbe essere anche un ottimo presidente degli Stati Uniti, se anni di propaganda non lo avessero reso praticamente “ineleggibile” agli occhi di larghe fasce dell’elettorato. Per come si sta sviluppando la dinamica della corsa, sarà comunque uno degli ultimi a mollare. (ANDREA)

CHRIS CHRISTIE 

7

Come detto: le qualità non si discutono. Ha un record da governatore molto peggiore di quelli di Walker e Bush eppure ieri sera è sembrato decisamente a suo agio. Sa che non vincerà mai e comunque gioca la sua partita, più in tv che nella vita reale. E’ una specie di Huntsman molto più simpatico ma con le stesse possibilità di arrivare in fondo. E’ parso rinfrancato dal crollo di Jeb e due-tre uscite ieri sera lo confermano.  Benino in generale, benissimo su Hillary, super sui moderatori. Paradossalmente lo spot di moderato è adesso tutto suo. (SIMONE)

7,5

Partita di altissimo livello, quella giocata ieri dal governatore del New Jersey. Resto convinto che le sue probabilità di conquistare la nomination repubblicana (dopo l’abbraccio mortale con Obama nel 2012) siano praticamente inesistenti, ma nel terzo dibattito Christie è stato praticamente perfetto. Sul ruolo del governo, sul dipartimento di giustizia, sul capo dell’FBI e gli attacchi alla polizia. Fantastico quando sbotta dopo la domanda sul fantasy football. “Even in New Jersey what you’re doing is called rude” vince a mani basse il premio per la migliore battuta della serata. Buono anche l’appello finale. (ANDREA)

MARCO RUBIO 

7,5

Vince il dibattito, a pari merito con Christie. E si conferma, oltre che il nuovo preferito dall’establishment, anche come il frontrunner dei “non outsider”. Apre con maestria le ostilità con i conduttori sul “double standard” con cui vengono trattati dai mainstream media i candidati repubblicani (rispetto ai democratici). Risponde per le rime all’attacco di Bush in apertura, mettendolo praticamente a tacere (con classe). Riesce a rimanere oggettivamente “presidenziale” per tutta la durata del dibattito. “The Democrats have the ultimate SuperPac. It’s called the mainstream media” potrebbe essere, sempre a pari merito con Christie, la migliore battuta della serata. Ma non è una battuta. (ANDREA)

8

La miglior performance sin qui vista ad un dibattito repubblicano in queste primarie. Senza discussione. Arriva alla serata con molta pressione addosso e la gestisce divinamente. Non attacca, si fa attaccare e come l’Udinese di Guidolin ti colpisce in contropiede e in mezzo secondo Bush passa dal Big Man della serata a un pugile suonato. Si libera rapidamente del rischio di apparire inesperto e non ha problemi a prendere di petto il bias dei mainstream media. Se e quando sarà Presidente degli Stati Uniti, ricordatevi che ha iniziato a vincere esattamente qui, davanti agli occhi increduli degli immoderati moderatori della CNBC.  (SIMONE)

P.S.

CNBC  2—

Se ci eravamo lamentati del bias di CNN era solo perché ancora non avevamo conosciuto i moderatori di CNBC. Carl Quintanilla, Becky Quick e John Harwood (in ordine crescente di disgusto) sono stati aggressivi, ostili ed imbarazzanti, arrivando perfino ad interrompere il flusso di pensieri dei candidati per esprimere le loro discutibili opinioni. Il risultato è stato probabilmente opposto alle loro intenzioni, perché i candidati del GOP hanno ritrovato come d’incanto un’unità d’intenti di fronte al nemico comune. Ci dispiace solo che, in questo festival di bassa macelleria, sia rimasto coinvolto (anche se marginalmente) un professionista serio e capace come Rick Santelli. L’umiliazione definitiva è arrivato con l’appello finale di Trump,che ha dimostrato plasticamente tutta l’insipienza, l’arroganza e la sostanziale inutilità di una classe giornalistica inesorabilmente avviata sul viale del tramonto. Che una sonora pernacchia li accompagni.

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