La bandiera?
Già te lo immagini nella Spianata delle Moschee, mentre punta a terra la bandiera dell’Occidente. La candidatura di Donald Trump alle primarie del partito Repubblicano per le elezioni Presidenziali del 2016 ha fatto chiasso dal primo giorno. Quasi uno shock necessario per risvegliare il popolo americano da due mandati di Barack Obama. Il suo politicamente scorretto ha spaccato opinione pubblica, classe politica e gli stessi repubblicani. Poi, qualche giorno fa, il miliardario propone di chiudere la frontiera agli uomini e alle donne musulmane e, in un’intervista alla Abc, alla domanda se sia pentito delle sue dichiarazioni risponde: “Affatto, dobbiamo fare la cosa giusta. Sapete che quando mi sono espresso contro l’immigrazione clandestina, tutti dissero la stessa cosa”, ma “due settimane dopo erano tutti dalla mia parte, compresi i membri del mio partito. È un divieto a breve termine”, spiega. “Ho importanti relazioni all’interno della comunità islamica e anche loro sono d’accordo con me, al 100%”. Il candidato è pronto a una politica a tolleranza zero contro chi predica odio e sfida senza giri di parole la sharia e la jihad.
La stampa Usa ed europea ci va giù pesante. E questo tycoon di New York fa sobbalzare più di qualche collega all’interno del Gop. I media non lo risparmiano e molti dal New York Times al Washington Post, passando per l’italiano Corriere della Sera [link] si chiedono se Trump abbia fatto bene, nella vivace corsa per la Casa Bianca, a “spararla grossa” a rompere le righe, ad alzare i toni della competizione. Per il Wp la risposta è “no” [link]. Trump è come Benito Mussolini. Dana Milbank riflette sul miliardario in testa ai sondaggi. Ne viene fuori un ritratto che si muove dal populismo alla xenofobia fino all’intolleranza. Secondo l’editorialista il paragone tra Trump e Mussolini non è superficiale. Le pose con la mascella volitiva, gli ampi gesti con la mano destra, tutto quel parlare dei suoi enormi successi contro la stupidità degli avversari, tutto evoca lo stile del dittatore italiano. “E l’incredibile dichiarazione sulla messa al bando dei musulmani è dai toni ovviamente fascisti”. L’immobiliarista, campione dei talk show prima dell’avventura politica, “usa molti degli strumenti dell’armamentario fascista: un disprezzo per la realtà dei fatti, la diffusione di un senso di paura e di crisi prevaricante, la descrizione dei suoi sostenitori come vittime, l’incolpare agenti stranieri o esterni di una crisi che solo la sua personale capacità potrà aiutare a superare”.
Ma i sondaggi continuano a dargli ragione. Trump piace agli americani e chi attacca più o meno frontalmente la sua corsa, nel bene o nel male, è costretto a fare i conti con questo “particolare”. Trump fa presa sulla pancia di quello che è diventato lo zoccolo duro dell’elettorato repubblicano che il Grand Old Party “non può permettersi di perdere”, scriveva a settembre in un memo riservato Ward Baker, direttore del comitato nazionale repubblicano per l’elezione al Senato. “Impegnarci a tempo pieno ad attaccare un nostro candidato avrebbe l’effetto di scoraggiare gli elettori”.
Puntuale la difesa del politologo Edward Luttwak. “È paragonabile alla Le Pen, ma non è come Mussolini. Non credo che Trump stia organizzando una marcia su Washington”, afferma. “Non vuole conquistare il potere con la forza, il suo successo è uguale a quello della Le Pen”. Luttwak ha le idee chiare sui motivi dell’ascesa sulla scena politica, al di qua e al di là dell’Atlantico, dei fenomeni populisti. Le responsabilità sono delle politiche messe in atto dalle “élite auto indulgenti”.”Il buonismo in Francia produce la Le Pen, negli Stati Uniti porta a Trump”, spiega.
Il tempo delle crociate è finito e dichiarare guerra a una religione a cui appartengono più di un miliardo di persone è pericoloso oltre che incostituzionale. Ma qualcuno non è d’accordo con questa analisi e considera le parole di Trump la triste conseguenza di un sistema contraddittorio come quello americano. La proposta di Trump è “orribile ma costituzionale”, fa sapere – dalle colonne del New York Times – Peter Spiro [link]. Ha anche un precedente nella legge con cui nel 1882 fu bandito l’ingresso di lavoratori cinesi. Il costituzionalista della Temple University sottolinea come spesso in materia di immigrazione negli Stati Uniti si applichino misure che sarebbero considerate incostituzionali se applicate ai cittadini americani. Ma in una serie di sentenze emesse in oltre un secolo dalla Corte Suprema ha più volte riconosciuto che nell’esercizio della sua ampia giurisdizione in materia di immigrazione e naturalizzazione, il Congresso regolarmente impone misure che sarebbero inaccettabili se applicate ai cittadini.
Il candidato razzista, demagogo intollerante, con la casella postale piena di messaggi anti semiti, anti-gay, anti immigrati, anti-afroamericani ma soprattutto anti-musulmani, insomma, continua a far discutere. E, nel bene o nel male, continua a dettare i temi dell’agenda politica statunitense. Il 28 dicembre Trump doveva essere a Gerusalemme, ma ha rinviato il viaggio. Doveva atterrare in un Paese che lo ha fortemente attaccato per la sua ultima provocazione (perfino il Likud ha voluto ricordare che Israele ha molti “leali cittadini musulmani”). Fermare gli islamici che bussano alla porta degli Usa per molti è un errore. Tuttavia avere un candidato in prima linea che nella Spianata delle Moschee è pronto a piantare con sicurezza la “bandiera del mondo libero” sarebbe qualcosa che all’America mancava da parecchio. Ma è proprio questa la bandiera dell’Occidente che vogliamo sventolare?