Trump, il fenomeno
Donald Trump, candidato alla Casa bianca, sempre più eccentrico e indipendente, di un Partito repubblicano in evidente crisi di identità e di leadership, oramai – per tutti coloro che qui negli Stati Uniti e in buona parte dell’Occidente, hanno un minimo di equilibrio e saldi principi, cosiddetti democratici – è un fenomeno da baraccone. Ma più le spara grosse e più la stampa parla di lui e più la stampa riporta le sue a dir poco eclatanti (deliranti?) dichiarazioni, più il suo consenso nell’elettorato conservatore di Oltreoceano, cresce. “Nihil novi sub sole”, anche a queste latitudini.
Fatte le debite proporzioni e visto molto grossolanamente, il fenomeno Trump non è un caso isolato. Anche lui incarna quell’irrefrenabile bisogno di anti-politica che, come è ben noto, in Europa miete successi e incassa consensi oltre ogni ragionevole previsione. Di chi sia la colpa o conseguenza di cosa sia tale fenomeno, è ben evidente. Basta guardarsi intorno e analizzare i protagonisti e gli eventi politici degli ultimi decenni. In sintesi è quanto basta.
Comunque sia, ogni spazio politico ha la sua scena e ogni scena la sua drammaturgia, anche se alcuni macro fenomeni pare abbiano matrici comuni. Così – se proprio bisogna trovare qualche somiglianza tra il miliardario americano e la nostra politica – Trump, a mio avviso, è una specie di fritto misto tra Grillo e Salvini in abbondante salsa ketchup. Mazzate contro ogni potere costituito, dichiarazioni al vetriolo contro la stampa, difesa senza mezze misure dei confini, fino alla paranoia e alla xenofobia bella e buona (ben oltre e molto le idee e le misure richieste dal capo della Lega) e ammiccamenti a fasce dell’elettorato incanaglito dalle angherie (magari conoscessero la nostra!) del fisco e della pubblica amministrazione americana.
Delle analogie tra gli Stati Uniti e l’Italia, per dirla tutta, le si ritrovano anche e forse soprattutto tra coloro che la politica, non la fanno (anzi la fanno eccome, seppure su un altro piano), ma la commentano. Stessa marchiana genericità. Qualche mese fa qualche notista nostrano – evidentemente orfano dell’anti-burlusconismo di un tempo – aveva paragonato Trump al Cavaliere di Arcore (i due, a mio avviso, hanno in comune solo l’ingente patrimonio e una certa picaresca e disarmante disinvoltura per le battute spesso sessiste) e in America a qualcuno il parallelo era piaciuto. Oh, yes! Just like Berlusconi!
Ora, la stampa americana ha dato del fascista al magnate newyorkese. “Fascista”, già. Anche qui in America, evidentemente, l’estensione dell’aggettivo (anzi dell’epiteto), arriva a livelli di elasticità assolutamente onnicomprensivi. Eh, già… esattamente come avviene in Italia.
Appellare qualcuno come fascista, a me pare assai generico, un po’ qualunquistico e soprattutto totalmente fuori dalle coordinate spazio-temporali. Finisce che l’appellativo qualifica più chi lo utilizza che colui di cui si desiderava fare oggetto. Coloro che danno del fascista a chiunque faccia o dica qualcosa che a loro non piace, oltre all’ edonistico piacere di sentirsi iscritti per decreto ancestrale dalla parte giusta dell’umanità, ghettizza nel grande mondo dell’antifascismo militante, spesso generico e annacquato come il loro lessico. Anche perché gli antifascisti, quelli veri, esattamente come i fascisti, si sono estinti, se non fosse altro, per motivi cronologici. Il resto è cascame della storia, ideologia ridotta, nella migliore delle ipotesi, a memorabilia, se non a patetica parodia.
Il fascismo, si può dire e pensare quel che si vuole, è un fenomeno ben circoscritto che prima o poi la storia e gli storici consegneranno nel suo intero alle future generazioni. Esse lo sapranno valutare col distacco dovuto ai fenomeni del passato. Stop. E il 25 aprile, magari, sarà celebrato – per chi lo desidera – solo nel suo giorno canonico e non ad ogni pie’ sospinto. Ma, a quanto pare, anche qui in America, dove il fascismo non lo hanno mai avuto (ma per un certo tempo – per dirla tutta – lo hanno anche apprezzato), c’è da attendere un bel po’ di lustri.
In quanto a Trump, si può dire con ben più puntualità e maggiore aderenza al vero e cognizione di causa che sia xenofobo, populista, demagogo, qualunquista, furbo e completamente privo dei più basilari strumenti culturali. O magari – come Putin – pensare sia un talento politico. Definirlo fascista, appunto, è una scorciatoia, non solo linguistica ma storica e intellettuale. Egli è il frutto sfatto di questo tempo che semplifica tutto in ogni sua manifestazione e – spero sia evidente – in qualunque direzione si rivolga.