Trump is coming
Marco Rubio, l’astro nascente della politica americana, colui che in molti pronosticavano potesse risollevare il movimento conservatore dopo otto anni di obamismo, si è ritirato dalla corsa alla nomination. Non sarà lui quindi il candidato GOP che alle prossime elezioni presidenziali di novembre gareggerà contro Hillary Rodham Clinton. Infatti, sconfitto pesantemente in Florida, il suo stato, Rubio ha gettato la spugna. Chi scrive è persuaso dall’idea che il giovane senatore avesse la capacità non solo di poter sfidare, ma anche di poter vincere contro la potentissima “macchina da guerra” della famiglia Clinton.
Ma da cosa nasceva questa convinzione? Da una parte i sondaggi che lo vedono come l’unico vincente contro l’ex first lady. Dall’altra, le stellette guadagnate sul campo di battaglia. Proprio in Florida, nel 2010, riuscì a spuntarla nella corsa per conquistare un seggio al Senato invertendo ogni pronostico e ottenendo il 49% dei voti, diventando così uno dei pochissimi senatori latino americani eletti. Figlio di immigrati scappati da Cuba (o per meglio dire, esuli…), faccia “da bravo ragazzo” e discrete capacità oratorie. Un buon identikit reso perfetto dall’anagrafe, in un momento storico nel quale è tremendamente necessario essere giovani, così da poter essere etichettato come estraneo ai vecchi schemi della politica riconducibili ai salotti di Washington.
La sua figura è stata capace di creare entusiasmo attorno agli ideali repubblicani, facendo breccia nella midclass del Sunshine State sfiancata dalla grave crisi economica. Meno tasse, famiglia tradizionale e in politica estera una posizione (troppo?) vicina ai NeoCon. L’establishment del partito ha cercato fin da subito di valorizzare l’indiscutibile potenziale politico, ipotizzandone anche una prematura candidatura nelle primarie presidenziali del 2012. Rubio ha ponderatamente declinato qualsiasi avance, puntando tutte le sue fiches sul tavolo delle elezioni 2016. Come dargli torto?
Le “congiunture astrali” sembravano essere tutte dalla sua parte. La chiusura di un ciclo politico nel quale le scelte (al dir poco) discutibili dell’amministrazione Obama hanno fatto sì che gli Stati Uniti d’America regredissero ‘dalla’ superpotenza ad ‘una’ superpotenza lasciando l’Occidente senza una guida illuminata. Si è così concesso del credito a chi forse non ne avrebbe dovuto avere, e in campagna elettorale si è banalizzata con troppa facilità quella che poi si è rivelata essere una seria e lungimirante analisi geopolitica.
La classe media si è impoverita, la riforma sanitaria continua ad essere mal digerita dalla maggioranza degli americani. Hillary Rodham Clinton, da più di quarant’anni in politica, come competitor. I mainstream media che non hanno disdegnato lusinghe e copertine (primo campanello d’allarme?), nonostante fosse un “pericoloso” conservatore e nonostante ci fossero stati alcuni incidenti di percorso (secondo campanello?)…Insomma il giovane Marco Rubio poteva contare su una strada tutta in discesa, anche considerando il prosperare negli ultimi anni di estremizzazioni politiche anticapitalistiche alla sinistra del partito democratico e una tendenza sempre più dilagante ad un’onda rossa figlia del successo alle elezioni di midterm 2014. Cosa è successo allora?
Abbiamo parlato della crisi economica che si è perpetuata anche negli ultimi otto anni, che ha trovato terreno fertile in una classe media americana abbandonata al proprio destino. Una crescente instabilità economica ha alimentato la paura di perdere il posto di lavoro e proprio per questo motivo una grande fetta dell’elettorato repubblicano si è spinto oltre nella ricerca del candidato diverso. Come troppo spesso succede, si cerca il rimedio ad un problema che non si comprende, in una soluzione alternativa all’ordinario. Quindi chi meglio di chi promette di far tornare l’America Grande? Chi meglio di chi trova un nome e cognome ad un nemico da scovare o da lasciare dall’altra parte di un muro?
Il colmo per il partito che si vanterà per tutta la vita di avere avuto un fuoriclasse della politica che ne faceva abbattere di muri in giro per il mondo…
Donald J. Trump è diventato per una grande fetta di repubblicani l’uomo della provvidenza, quel politico-non-di-professione che ha reso protagonista anche in Italia una comunicazione mediatica non conforme, differente rispetto al politicamente corretto e che volutamente alzi i toni cercando di urlare più forte degli altri contendenti. Ma il problema non sono i toni, il problema sono i contenuti. La destra in Europa sta vivendo questo mutamento già da qualche anno virando sempre più in uno statalismo coercitivo, accentratore e isolazionista. Un populismo dilagante che gioca di sponda con la scomoda presenza sullo scacchiere internazionale di Vladimir Putin. Alla prova dei fatti è una scelta perdente quindi, tralasciando volutamente di rimarcare le differenze tra quale è la vera destra, limitiamoci nel considerare come questa sia la scelta peggiore da fare.
Trump sta cercando volutamente lo scontro per creare un solco tra due posizioni inconciliabili. Da una parte evidenziare come, tra gli altri problemi, le minoranze abbiano amplificato un disagio sociale cercando di compattare la maggioranza bianca. Dall’altra il tentativo di sostentamento, a qualsiasi costo, delle minoranze al fine prettamente elettorale. Anche su questo blog si è discusso sull’opportunità di difendere o no Trump dalle violente proteste organizzate ai suoi comizi. Sicuramente bisogna essere chiari nel condannare la violenza, soprattutto se esercitata nel tentativo di mettere un bavaglio alle libertà d’espressione. Ma siamo sicuri che questa polarizzazione (molto violenta) non sia stata una manna dal cielo per il tycoon newyorchese?
La verità indiscutibile, scomoda, è che in questa situazione i colpevoli dell’attuale crisi culturale della destra americana sono gli elettori stessi, che non hanno più la forza di combattere per le scelte giuste da fare in prospettiva, facendosi trascinare in una scelta populistica e demagogica, sperperando definitivamente l’immenso patrimonio ereditato dal reaganismo. Ecco quindi che The Donald sembra inarrestabile, molto probabilmente lo sarà. Non ci resta che profetizzare un inverno necessario, per poter poi vedere germogliare un nuovo seme di libertà all’interno del GOP e dei suoi stessi militanti.
Che il signor Donald Trump fosse in testa ai sondaggi elettorali era giusto fin da subito,anche se mai è riuscito ad andare avanti ad Hillary Clinton e questo era ed è un segnale non indifferente rispetto alla sua corsa elettorale. Ritengo che la sua forza che sa esprimere fino alla brutalità non gli sarà una buona alleata e che, anzi, lo renderà più debole davanti ad Hillary Clinton che vncerà le prossime elezioni presidenziali.
Purtroppo Rubio ha pagato diversi fattori che hanno giocato a suo sfavore. Il primo è di carattere “ambientale”: il 2016 è “l’anno della rabbia”, e il terreno non è dei più fertili per un messaggio di speranza e ottimismo.
Il secondo è stato un campo repubblicano che ha prodotto ben 17 candidati, frazionando i consensi (così come i tempi di risposta nei primi dibattiti, in cui sul palco dell’evento principale c’erano ben 11 persone), a tutto vantaggio di chi, come Trump, potendo godere di una celebrità quasi universale negli USA, è stato riconoscibile fin dalle prime battute iniziando a distaccarsi dal gruppo già nel corso dell’estate.
Ma tutto questo sembrava superato: il risultato dell’Iowa ha istantaneamente fatto di Rubio l’uomo del giorno, quello su cui puntare per fermare Trump. E se ne sono accorti in tanti, ad iniziare da Chris Christie che, nel tentativo di impedirgli di spiccare definitivamente il volo, si è immolato in una missione kamikaze per abbatterlo sul palco del dibattito in New Hampshire.
In quell’occasione purtroppo Rubio si è fatto cogliere impreparato e ne è venuto fuori male. Quei pochi secondi in cui il giovane senatore della Florida ha ripetuto la stessa frase per cinque volte sono diventati il tormentone del week-end, finendo per eclissare il tutto il resto.
Quel momento ha danneggiato Rubio nell’immediato (trasformando un probabile secondo posto in un deludente quinto nel Granite State), ma soprattutto nel lungo periodo. Personaggi come Bush e Kasich, i cui elettorati di riferimento hanno molte zone di sovrapposizione proprio con quello di Rubio, erano arrivati in New Hampshire con una campagna in “life support”, se Rubio avesse continuato il trend positivo dell’Iowa probabilmente entrambi sarebbero stati costretti a gettare la spugna. Così non è stato, il New Hampshire ha “resettato” la gara e se Bush è restato in corsa solo per un’altra settimana, Kasich (finito secondo) ha continuato a sopravvivere su quel risultato, sottraendo voti a Rubio, fino alla fine, cosa che si è rivelata particolarmente costosa nel primo super-Tuesday, il vero punto di svolta in negativo della campagna di Rubio.
Fino a pochi giorni prima sembrava che le cose si fossero rimesse a posto: Rubio aveva chiuso al secondo posto in South Carolina e in Nevada, battendo Cruz in entrambe le primarie. Nei blog conservative si iniziava a parlare della necessità di supportare il candidato più mainstream. Dopotutto se Cruz, che basa il suo consenso sugli hardcore conservative e sugli evangelici, non era riuscito a far meglio di Rubio in uno stato come la South Carolina, che speranze aveva di reggere il passo muovendosi più a nord e ad ovest nella mappa?
L’uscita di scena di Bush aveva poi “liberato” fior di finanziatori, tutti pronti a saltare dal carro dell’ex governatore della Florida a quello di Marco, cosa dimostrata anche dalla pioggia di endorsement arrivati nell’ultima settimana di Febbraio. Insomma il Marcomentum era di nuovo palpabile e lo è diventato ancora di più dopo il dibattito di Houston del 25 Febbraio, quando Rubio, del tutto a sorpresa, ha cambiato strategia andando all’attacco di Trump a tutto campo, uscendone vincitore a giudizio pressoché unanime degli osservatori ed emergendo finalmente come l’anti-Trump.
Proprio in quello che sembrava il momento del decollo c’è stato il secondo passo falso.
Se nel dibattito Rubio aveva martellato Trump sulla sua carenza di contenuti, mettendo all’indice l’incoerenza di un personaggio che dice di voler costruire un muro per bloccare gli immigrati clandestini, ma poi li assume, anche senza documenti, nei suoi cantieri, che sostiene di voler riportare in America i lavori emigrati all’estero, ma appena può delocalizza in Cina, che si presenta come il paladino dell’uomo comune, ma lo riduce sul lastrico con le bancarotte delle sue società e lo truffa con la Trump University, nei comizi dei giorni successivi l’escalation innescata dallo stesso Trump a suon di insulti ha portato Rubio a rispondere ponendosi allo stesso (basso) livello del suo avversario.
Quando nel rally di Dallas ho sentito Rubio dire che Trump, durante una pausa del dibattito, aveva chiesto uno specchio a tutta altezza, forse per assicurarsi che i suoi pantaloni non fossero bagnati, non credevo alle mie orecchie. E ancora di meno ci credevo quando, il giorno dopo, Marco ha attaccato Trump per la dimensione delle sue mani. “Non fidatevi delle persone con le mani piccole”. Un’uscita sconcertante per chi sa chi è Marco Rubio e mai si sarebbe aspettato di sentire parole del genere uscire dalla sua bocca.
Un risultato c’è stato: i network hanno iniziato a coprire i comizi di Rubio in diretta, privilegio fino a quel momento riservato al solo Trump, sperando che l’escalation degli insulti proseguisse.
Purtroppo lo stato attuale dei media è tale che attirare la loro attenzione è come cercare di farsi notare da una dodicenne a scuola: devi essere la persona più rumorosa nella stanza, e se dai un pugno in faccia a qualcuno la cosa di sicuro non guasta.
Questo, se da un lato ha dato a Rubio una maggiore esposizione mediatica (e questo era l’obiettivo) dall’altro ha seriamente danneggiato il suo brand.
Un elettore medio di Trump va ai suoi comizi sperando di sentirlo insultare il mondo intero, ma un elettore medio di Rubio non può che restare disgustato da un comportamento simile, ancora di più quando la cosa è diventata uno dei principali argomenti di conversazione nelle tavole rotonde delle TV via cavo. Il tutto è durato poco più di 48 ore, ma quando il vero Marco è tornato in sé il danno ormai era fatto.
Non credo fosse farina del suo sacco, deve essere stato (mal) consigliato da qualcuno dei suoi advisor e più tardi ha detto di essersene pentito, ma quello è stato l’inizio della fine.
Pochi giorni dopo è arrivato il supertuesday del 1° Marzo.
L’appannamento d’immagine unito alla permanenza di Kasich nella gara sono costati a Rubio più di qualche punto, e qualche punto quella sera avrebbe fatto tutta la differenza del mondo.
Due o tre punti in più avrebbero permesso a Rubio di vincere, del tutto a sorpresa, la Virginia, di superare lo sbarramento del 20% in Alabama e soprattutto in Texas ricavandone un robusto guadagno sia in termini di momentum (vincere negli stati dove è in vigore il sistema proporzionale serve in sostanza solo a questo) che di delegati.
Così non è stato, e improvvisamente il mondo si è ribaltato: gli elettori hanno passato una serata intera a sentir parlare del deludente risultato di Rubio e nel giro di qualche ora il golden boy della politica americana ha assunto i tratti di un cavallo perdente, il tutto nello stesso momento in cui Cruz andava oltre le aspettative della vigilia vincendo non solo il Texas, ma anche l’Oklahoma e l’Alaska.
La vittoria di Rubio in Minnesota è arrivata troppo tardi nella serata per cambiarne il sapore e molti conservative orientati a votare per Rubio sono andati a letto con l’impressione che l’unico voto utile per fermare Trump fosse quello dato a Ted Cruz, fatto che si è mostrato in tutta la sua evidenza nelle primarie di qualche giorno dopo il Louisiana, dove Rubio aveva un solido 20% nell’early voting, ma è precipitato in single digit nell’election day, mentre i voti persi da lui andavano praticamente in blocco ad ingrossare il bottino di Cruz, che grazie a questo ha messo a segno altre vittorie in Maine, Kansas e Idaho, affermandosi come l’unica vera alternativa possibile a “The Donald”.
All’opzione Rubio non credeva più nessuno e a quel punto non c’era più ritorno. Le vittorie a Puerto Rico e D.C. sono state figlie di condizioni particolari, maturando per di più in contesti con troppa poca copertura mediatica per cambiare l’inerzia della gara.
Restava la Florida. Se Rubio ci fosse arrivato con alle spalle di un percorso diverso, se i tanti che lo guardavano con favore avessero avuto motivi plausibili per poterci ancora credere, le cose sarebbero potute andare diversamente, ma il risultato è stata una sconfitta senza appello.
E’ tristemente ironico che un candidato che ha tracciato la sua traiettoria politica sulle orme di Ronald Reagan abbia finito per uscire di scena dopo essersi imposto solo in quegli stati e territori (più Puerto Rico, che però per la general election non vota) che regalarono gli unici voti elettorali a Walter Mondale nel 1984, l’anno della sua spettacolare disfatta elettorale proprio ad opera di Reagan.
Marco Rubio era certamente la carta migliore in mano al GOP per battere Hillary Clinton.
Non che l’ex first lady sia un avversario irresistibile: tre dei candidati in lizza fino a martedì scorso battono Hillary nei sondaggi (anche se nel caso di Cruz è un testa a testa), ma a far man bassa di delegati è stato l’unico dei quattro che nella media RCP è sotto di oltre 6 punti.
Vedere Rubio sul palco insieme a Nikky Haley e Tim Scott ha suscitato in tanti la speranza di un GOP che, senza perdere niente del messaggio conservative fatto di limited government e free enterprise, potesse imparare di nuovo a parlare a quelle fasce di elettorato che nel 2012 garantirono la rielezione di Obama.
Le ultime due tornate presidenziali hanno detto una cosa molto chiara: se i repubblicani vogliono riconquistare la Casa Bianca devono risolvere i loro problemi con le minoranze e con l’elettorato femminile.
Oggi il favorito per la nomination è un personaggio che sta facendo di tutto per alienarsi entrambe le categorie.
Rubio è ancora giovane, non ha nemmeno 45 anni. E’ un oratore formidabile e (New Hampshire a parte) un debater di prima categoria, come ha dimostrato anche recentemente a Miami. Gli auguro e ci auguro che possa avere un’altra possibilità.
Nel frattempo persone come me, che già da anni sentono di non avere una rappresentanza politica in Italia, si apprestano a vivere la prima elezione generale a stelle e strisce in cui nessuno dei frontrunner per la nomination sembra avvicinarsi alla soglia della decenza. Se fossi un cittadino americano non credo proprio che potrei votare per Trump, nemmeno sapendo che l’alternativa è Hillary. Probabilmente me ne resterei a casa e questa scelta verosimilmente la faranno in tanti.
Ma la cosa peggiore di un candidato come Trump non è che al momento pare sia destinato a perdere, ma che alla fine potrebbe anche vincere. Il che vorrebbe dire dover aspettare otto anni prima di avere di nuovo un conservative autentico (o semplicemente qualcuno che ricordi un adulto) come candidato alla Casa Bianca. Non è quello di cui avevamo bisogno.