La bandiera del fusionismo

«Nel 1945 scrive George N. Nash in The Conservative Intellectual Movement in America non esiste alcuna forza intellettuale conservatrice in America che sia coordinata e cosciente di sé, ma solo voci di protesta isolate e profondamente pessimiste sul futuro del Paese. Non si può ancora parlare di una destra, perché ce ne sono almeno tre.

I liberali classici o libertarian (Albert Jay Nock, Ludwig von Mises, Friedrich August von Hayek, ndr) che si oppongono al pericolo rappresentato da uno stato in continua espansione per la libertà, l’impresa privata e l’individualismo. Il nuovo conservatorismo o tradizionalismo di uomini come Richard Weaver, Peter Viereck, Russell Kirk e Robert Nisbet che, dopo lo shock causato dal totalitarismo, dalle guerre mondiali e dallo sviluppo di una società massificata e senza radici, predicano un ritorno alle religioni tradizionali e il rifiuto del relativismo. Infine sta prendendo forma un anticomunismo militante, plasmato da una serie di influenti ex-radicals degli Anni Trenta, tra cui Whittaker Chambers, James Burnham e Frank Meyer. Questi ex attivisti di sinistra trasmettono alla destra del dopoguerra una convinzione profonda: l’Occidente è impegnato in una lotta titanica contro un avversario implacabile, il comunismo, il cui obiettivo è la conquista del mondo».

Due decenni più tardi, questo movimento intellettuale descritto da Nash, apparentemente schizofrenico, ha posto le basi per la dirompente candidatura di Barry Goldwater alle elezioni presidenziali del 1964, ma non ha ancora provocato un impatto reale sul sistema politico statunitense. Dopo la rovinosa sconfitta di Goldwater, infatti, gli Stati Uniti si preparano ad affrontare uno dei progetti di ingegneria sociale più mastodontici della loro storia: il tentativo di costruzione di quella Great Society che almeno nelle intenzioni dell’appena eletto presidente Lyndon Johnson deve debellare una volta per tutte le sacche di resistenza conservatrici che, nel cuore della Middle America, ancora si rifiutano di essere sottomesse.

«Le élite di Boston e New York che sostengono la creazione di un welfare state in stile europeo scrivono John Micklethwait e Adrian Woolridge, in The Right Nation: Conservative Power in America e credono di avere una buona chance per civilizzare quelli che qualcuno di loro chiama yahoos». Ma questi yahoos (bruti, ignoranti), come dimostra anche il ciclo elettorale a cui abbiamo appena assistito, tendono ad opporsi all’idea di essere domati.

I repubblicani del dopoguerra sono una pallida copia di quello che sarebbe diventato il movimento conservatore dopo il 1964. Einsenhower non cerca in alcun modo di scalfire il nocciolo duro del New Deal, convinto che la graduale espansione del governo federale sia il prezzo da pagare per la crescita del Paese. Il partito è lacerato tra la minoranza conservatrice incarnata dal senatore dell’Ohio Robert Taft (Mr. Republican) e la maggioranza moderata guidata da Thomas Dewey. Mentre i liberal controllano almeno otto settimanali a larga diffusione, i conservatori devono accontentarsi di una esile newsletter come Human Events, lanciata nel 1944 con una tiratura appena superiore alle cento copie. Ma un fuoco di idee arde sotto la cenere della politica.

Dall’inizio degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, si affacciano prepotentemente sulla scena del dibattito culturale statunitense una serie di think-tank conservatori (nel senso più ampio del termine), come l’American Enterprise Institute e la Hoover Institution, capaci di mettere a dura prova lo strapotere della sinistra nel campo della produzione e diffusione del pensiero. Nel 1955, poi, William F. Buckley fonda la National Review, rivista che ancora oggi rappresenta un importante punto di riferimento per la destra americana. L’operazione intellettuale e politica è molto sofisticata: trasformare il coacervo di dottrine locali (Sud, Midwest, Ovest) del conservatorismo statunitense in vero movimento culturale nazionale. Sotto la bandiera della National Review, Buckley è il primo a unificare le tre schegge principali del conservatorismo americano: il tradizionalismo, il liberalismo classico e l’anticomunismo. Kirk, Weaver e altri esponenti della tradizione conservatrice danno il loro contributo fin dall’inizio. Insieme a loro: Wilhelm Röpke, John Chamberlain, Frank Chodorov, Max Eastman e Frank Meyer. Infine il nutrito gruppo di ex comunisti ed ex trotskisti che partecipano attivamente alle battaglie culturali della rivista: lo stesso Meyer, James Burnham, Willmoore Kendall, William Schlamm.

Sarà proprio Frank Meyer, con In Defense of Freedom, a definire i confini filosofici di questa operazione culturale che prende il nome di «fusionismo», di cui la National Review diventa cinghia di trasmissione nel mondo intellettuale e politico. Sempre Meyer, nel 1964, cura un volumetto poco noto al grande pubblico, ma che avrebbe esercitato una profonda influenza nei decenni successivi. Una dozzina di intellettuali vicini a questa area politica di riferimento cerca di rispondere alla domanda What is conservatism?. Nonostante le differenze di approccio, Meyer coglie un pattern comune capace di unire von Hayek (che rifiuta pubblicamente l’etichetta di conservatore), Buckley e Kirk. Tutti considerano la persona come centro di ogni elaborazione politica e sociale, tutti scartano l’idea di uno Stato con poteri così ampi da poter determinare una propria agenda sociale nonostante il volere delle persone, tutti riconoscono la centralità della Civiltà Occidentale e la necessità di difenderla con ogni mezzo contro la minaccia comunista. Da questa base comune viene edificata l’agenda Goldwater su pensioni, sussidi governativi, privatizzazioni, lotta al comunismo. E da qui alla Big Tent reaganiana il passo è breve.

Non siamo di fronte all’anarchismo libertario della Rand e nemmeno al tradizionalismo (difeso anche attraverso lo Stato) dei primi conservatori: è una miscela delle due cose, il riconoscimento che le due aspirazioni non solo possono convivere ma, di più, non hanno altra scelta che l’alleanza. Perché i libertari rischiano costantemente di essere etichettati come cinici e insensibili alle sofferenze di chi resta escluso dal mercato, mentre i conservatori continuano a essere dipinti come bigotti pronti a fermare il progresso pur di difendere i propri valori etici e religiosi. Nella prospettiva fusionista, entrambe le parti accettano di sacrificare la purezza ideologica sull’altare di un risultato possibile.

A poco sarebbe servita la dottrina fusionista, però, se la destra americana non avesse iniziato a lavorare anche sul terreno, impervio e insidioso, della militanza politica. Fino agli anni di Goldwater, i foot-soldiers conservatori sono male organizzati e soprattutto divisi: repubblicani al Nord-Est e nel Midwest, democratici negli Stati del Sud. Con la candidatura alle presidenziali del senatore dell’Arizona parte il tentativo di conquistare una maggioranza strutturale in Stati che tradizionalmente, dopo la guerra civile, hanno sempre votato per i democratici. Goldwater, grazie al lavoro dei propri militanti e alle idee innovative dei think-tank che lo sostengono, riesce a strappare la nomination per le presidenziali del 1964 a Nelson Rockfeller e alle élite aristocratiche che fino ad allora hanno dominato le dinamiche interne del partito repubblicano. Il suo progetto politico è certamente troppo in anticipo sui ritmi della storia, tanto che Johnson vince comodamente la sfida per la Casa Bianca. Ma la rivoluzione è appena iniziata.

Le vittorie di Richard Nixon (1968 e 1972), di Ronald Reagan (1980 e 1984), George H. Bush (1988), George W. Bush (2000 e 2004) e perfino quella di Donald J. Trump di quest’anno, pur con tutte le differenze che quasi mezzo secolo di storia porta con sé, sono tutte figlie di quella rivoluzione fusionista che tra mille frenate e incidenti di percorso ha portato oggi il Partito repubblicano a controllare la Casa Bianca, la Camera, il Senato, 33 governatori (su 50) e la stragrande maggioranza delle assemblee legislative negli Stati Uniti.

Tutto ciò, naturalmente, non è stato possibile soltanto grazie alla forza delle idee e della militanza politica. Almeno altri due fattori vanno presi in considerazione, anche se non è possibile approfondirli in questa sede. Il primo è la progressiva radicalizzazione della sinistra americana (fenomeno del tutto ignorato dagli analisti, soprattutto in Italia). Il secondo riguarda il finanziamento della politica e della cultura: la rete di think thank e di associazioni della destra non sarebbe potuta sopravvivere a lungo, in un ambiente ostile come quello del mondo accademico e intellettuale americano, se un nutrito e generoso gruppo di finanziatori non avesse, soprattutto all’inizio, garantito un flusso costante e sostanzioso di denaro. Dal magnate della birra Joseph Coors alla famiglia Koch, passando per Richard Mellon Scaife e John Merril Olin, la storia della Right Nation è ricca di imprenditori che, senza pretendere posizioni di potere o visibilità politica, hanno messo il peso della loro ricchezza dalla parte giusta della storia.

Oggi, a poche settimane dall’incredibile conquista della Casa Bianca da parte di Trump, gli eredi del metodo fusionista si trovano di fronte, ancora una volta, a un compito molto difficile: coniugare le pulsioni populiste di un Presidente anomalo rispetto al tradizionale baricentro della cultura liberalconservatrice con le sfide globali che la destra americana ha sempre intuito prima e meglio degli altri. È una sfida assai complicata, per usare un pallido eufemismo, ma chi meglio dei fusionisti può provare a vincerla?

© Il Giornale, 28 dicembre 2016


 

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