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C’era una volta l’America
C’era una volta l’America del “dissidenti di tutto il mondo,unitevi”. Una nazione che ci aveva conquistato con il suo carico ideale, la sua capacità di essere speciale, il suo sentirsi in missione per sconfiggere la tirannia e liberare i popoli oppressi. Con un buon tasso di retorica, d’accordo, e magari con un pizzico di demagogia. Ma era quello il paese di cui ci eravamo innamorati. Perché, al di là dalla temperie, del momento storico e della polemica politica quotidiana, l’America ha rappresentato per tutti noi l’idea di una libertà che era bella proprio perché universale, impossibile da rinchiudere nei confini di una nazione grande ben oltre la sua estensione geografica. A capire tutto questo non c’è stato solo George W Bush e la sua, per alcuni bizzarra, teoria dell’esportazione della democrazia. Ci sono stati, prima di lui, Bill Clinton e John Fitzgerald Kennedy, Harry Truman e Ronald Reagan. Presidenti che riuscivano a parlare alla loro nazione e al resto del mondo, rilanciando l’idea di un’America pronta a impegnarsi per la sicurezza propria ma anche per la libertà altrui. Era, in fondo, il sogno americano. E per anni abbiamo vissuto in una perenne sindrome da “arrivano i nostri”. Ogni volta che c’è stato un problema, ogni volta che vedevamo compiersi un’ingiustizia, sapevamo (talvolta esagerando nella nostra fiducia) che gli americani sarebbero stati lì, dalla nostra parte. Kuwait City, Kabul, Baghdad, Kosovo: c’erano spesso interessi economici e geopolitici in gioco ma a noi è piaciuto pensare che ci fosse anche un dato ideale a portare migliaia di marines in giro per il mondo a garantire la libertà e la democrazia. Così, quando abbiamo visto gli iracheni e gli afghani votare per scegliersi una costituzione e un governo, abbiamo pensato che sì, la libertà si poteva esportare. Perché non stavamo esportando un modello precostituito ma la semplice opportunità di scegliersi un modello. La tensione antitotalitaria di quegli anni sembra essersi sciolta come neve al sole, da quando Barack Obama ha preso possesso dello Studio Ovale. Più che il comandante in capo del mondo libero, il 44esimo presidente americano, sembra un capo di stato che ha appena perso la guerra e gira il mondo e le sedi internazionali chiedendo scusa per tutto quel che è stato e che non sarà mai più. Esattamente un anno fa, George W Bush andava alle Nazioni Unite a dire che Siria ed Iran continuavano ad essere dei pericolosi regimi, partner internazionali dei terroristi . Rivendicava con coraggio il merito di aver destituito i talebani e Saddam Hussein con operazioni che non sono state per nulla unilaterali come vorrebbero farci credere (più di trenta le democrazie coinvolte nelle due operazioni) e che, al di là del rafforzamento degli interessi americani e alleati nell’area, hanno certamente portato all’affrancamento di almeno 50 milioni di persone che da sudditi si sono trasformati in cittadini. A 12 mesi di distanza dall’ultimo discorso di Bush all’Onu, il nuovo presidente americano incassa gli applausi di numerosi leader sinceramente antidemocratici e consegna alla storia il nuovo multilateralismo spinto che dovrebbe caratterizzare le prossime mosse dell’amministrazione a stelle e strisce. Non ci spaventa il pensiero che gli Stati Uniti vogliano coinvolgere altri paesi nella lotta alle tirannie: è stato così in passato e per fortuna sarà così anche in futuro. Ci terrorizza, invece, l’ammissione che questa grande nazione ha fatto di fronte al mondo intero, certificando la paura di fare quello che le riesce meglio: osare, schierarsi, scegliere. Anche a costo di indispettire qualcuno, anche a costo di rimanere isolata, anche a costo di disegnare utopie. Quando parlavano i recenti presidenti americani, i tiranni si arrabbiavano, non applaudivano e tutti noi ci sentivamo più vicini ai dissidenti che ai regimi. Ieri, per la prima volta, non è stato così. L’impressione è che nel tentativo di consegnare alla storia George Bush, Barack Obama stia archiviando l’idea stessa di America.