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Giù le mani dal Friuli

C’è un limite, sottile, tra il diritto di cronaca, l’inchiesta anche scomoda, la legittima ricerca di una polemica e l’insulto a un popolo, alla sua lingua, alla sua storia. Passi che si scavi, profondo, nelle pieghe dei bilanci pubblici per scovare finanziamenti, contributi, patrocini dati o promessi. Passi che si insinui che sono soldi buttati in tempi crisi. Passi pure che si sostenga che sarebbero soldi buttati comunque. E passi, anzi ben venga, l’analisi di come quei soldi sono spesi, lo studio dei suoi risultati e la rendicontazione puntuale di quello che è stato fatto con i denari di tutti. Ma ciò che sta accadendo con la Lingua Friulana è tutto meno che giornalismo serio. E visto lo stato in cui versa il giornalismo italiano non potevamo aspettarci di meglio L’articolo di Io Donna che il sito Corriere.it riporta è un misto di luoghi comuni, facilonerie e razzismo un tanto al chilo. Un pezzo, quello scritto da Giulia Calligaro e Raffaele Oriani, che descrive il Friuli, i Friulani e il Friulano come una gigantesca caricatura. Tanto che viene da chiedersi quale sia il limite, e se non sia stato valicato, che separa la libertà di espressione da questo insulto mascherato da inchiesta. Per il Corriere della Sera, l’Università di Udine è soltanto uno della “serie di organi” con cui “si punta sparati alla promozione del friulano”. Non è così. Il valore di questo Ateneo affonda le sue radici nella storia della lotta di un territorio che voleva una sua Università. Una Udine marginalizzata e presunta contadina che scendeva in piazza per chiedere un Ateneo che fosse espressione di quel Friuli che rappresentanza universitaria non aveva e che non veniva ritenuto all’altezza di esprimerne una. Niente di più naturale, quindi, che una sede universitaria con questa storia alle spalle custodisca, promuova, valorizzi la lingua del suo territorio. Ma lo snobismo culturale di quella classe politica è lo stesso di questo giornalismo che ha la certezza di come la traduzione friulana di Aspettando Godot di Samuel Beckett suoni in verità “più prosa comica che teatro dell’assurdo”, in un dileggio tratteggiato del patrimonio linguistico di un popolo che non fa onore al primo quotidiano nazionale. Siamo gente perbene, qui, e non ce la prenderemo più di tanto. Probabilmente perché abbiamo altro e di meglio da fare che appassionarci a queste guerre di retroguardia. Però siamo un popolo orgoglioso, che ha saputo rialzare la testa mille e una volta. Un popolo con dei valori forti, anche se silenziosi e mai ostentati, con una marea di difetti. In cima a tutti, lo diciamo al duo Calligaro-Oriani, anche un certo amore per il “cantuccio di casa”, per la famiglia, un forte legame con la propria terra. Ma è un difetto che non ci ha impedito di esportare eccellenze e di portare con orgoglio la nostra bandiera in molte parti del mondo: la Danieli, la Fantoni, la Snaidero, l’Eurotech e tutte le altre aziende di caratura internazionale che sto dimenticando. E poi l’Udinese, lo sport di vertice, la nostra Università, le migliaia di emigranti che ogni giorno rendono questa terra orgogliosa di loro. Ed è un difetto, questo presunto localismo, che non ci ha impedito, trent’anni fa, dopo un terremoto drammatico, di ricostruire le case e la fiducia di una terra martoriata dal sisma. Con una ricostruzione modello per tutti. Una ricostruzione iniziata col motto “Fasin di bessoi” (facciamo da soli) e finita con “II Friul al ringrazie e nol dismentee” (il Friuli ringrazia e non dimentica). Inizio, conclusione e svolgimento di quella storia erano in friulano, quella stessa lingua definita dal Corriere “rianimata dalle leggi” e che invece gode di ottima salute. Grazie al suo popolo e alla sua gente e nonostante certi articoli di chi non ci vuole tanto bene. Mandi.

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