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Il cuore si chiama Democrazia

[Attenzione: post lungo. Scusate] Ho letto con interesse l’editoriale firmato da Fabrizio Cicchitto e apparso oggi su “Libero”. Il tema è quello non secondario del futuro del Pdl, dei suoi assetti interni, di come si formerà e sarà governato questo partito a vocazione maggioritaria, nazionale, interclassista. Non è un tema di scarso rilievo se confrontato con la crisi economica e sociale che attraversa il nostro paese perché la capacità che avremo di rinnovare il nostro sistema di welfare o di sburocratizzare il nostro sistema economico passa anche e soprattutto attraverso la formazione di una classe dirigente in grado di affrontare con coraggio le sfide del domani. Cicchitto divide il Popolo della Libertà che è e che sarà, metaforicamente, in quattro: ossa, cervello, gambe, cuore. Le ossa sarebbero gli organigrammi interni da completare nominando i coordinatori regionali, provinciali e i quadri locali, tenendo conto delle varie anime del partito. Dopo c’è il cervello, rappresentato dalla capacità di elaborazione culturale e politica del movimento su cui si devono concentrare i vertici del partito, dando vita a piattaforme politico-programmatiche sui temi principali. Da evitare, secondo Cicchitto, l’eccessivo ricorso alle fondazioni. Poi le gambe, gli eletti, i galoppini che sul territorio devono dare nerbo al movimento sul modello “leghista”, con un PdL in grado di parlare al suo elettorato. Infine, il cuore, la gente, i sentimenti, i 2,6 milioni di Piazza San Giovanni quel meraviglioso 2 Dicembre. Cicchitto non se ne rende minimamente conto ma in tutto questo disegno non ha mai nominato i termini chiave “democrazia” e “partecipazione”. Semplicemente spariti, annientati dal pensiero unico verticista e centralista di questo leviatano che sta nascendo all’ombra di via dell’Umiltà. Gli iscritti, quelli che lui chiama “il cuore”, servono solo a riempire le piazze, a difendere Berlusconi, a partecipare ad un gigantesco fan club in cui a rilevare è soltanto la capacità di rimanere allineati e coperti dietro ai diktat dei triumviri. Bene che ti va di ritrovi una pacca sulla spalla e un kit congressuale con tanto di spilletta. L’elaborazione culturale? Il dibattito politico? La capacità di delineare strategie nuove? Non disturbate che stanno lavorando (anche, forse) per noi. Capisco che a Roma nessuno se ne accorga ma nelle sue ramificazioni locali (le gambe) questo movimento è diventato una contesa tutta privata tra ex democristiani ed ex socialisti, con il peggio o il meglio della prima repubblica che ci riempie la testa di ricette e soluzioni da prima repubblica, senza uno slancio nemmeno lontano di modernità, senza la capacità di interpretare lo spirito autentico del ’94: l’antistatalismo, il liberismo, la volontà di avere finalmente una vera forza di centrodestra. Tutto è evaporato di fronte al grande appeal che hanno le lotte intestine di potere. Lotte alimentate, checché se ne dica, dalla mancanza di una dialettica interna democratica, dalla totale assenza di regole condivise, dalla inusuale incapacità per un partito che si definisce liberale di mettere in risalto il merito e la competizione. Vince chi è più organico al sistema, e questa è l’unica battaglia che conta. Il tradimento peggiore della storia personale stessa di Silvio Berlusconi, una storia fatta di successi ottenuti innovando, mutando, dimostrandosi davanti a tutti e capace di realizzare cose che nessuno era in grado nemmeno di pensare. Le fondazioni di cui parla Cicchitto e la continua ricerca di una legittimazione esterna al movimento sono il segnale evidente che a questo partito non ci crede nessuno. Perché oltre a diventare la cassa di risonanza del suo leader e il palco poco edificante su cui combattere battaglie di retrovia per una sedia, non ci siamo mai spinti. E allora le proposte ce le devono far pervenire da fuori: fondazioni, economisti, filosofi, editorialisti più o meno à la page. Tutto tranne che l’elaborazione di una linea politica e culturale che promanasse dalla gente, per la gente e con la gente. Serve, e occorre dirlo con chiarezza, una terza via. Né democristiana, né socialista, nè liberale o ex-qualcosa ma di metodo. Una terza via che, sia a livello locale che nazionale, rilanci l’idea di un partito moderno, partecipato, capace di far contare i propri iscritti non solo come bandierine da mostrare alla prima kermesse utile ma come autentico strumento di partecipazione e di governo. Serve una vision nuova che capisca che il cuore ideale del centrodestra sta nel suo non sentirsi inferiore, nel non aver paura di mettersi in gioco, di mostrare la faccia, di competere. Sul piano economico, così come su quello politico, abbiamo bisogno di libertà. Libertà di dire che questa classe dirigente ha fatto il suo tempo o libertà di riconfermarla in sella ancora per molti anni. Ma vorremmo poter decidere che centrodestra vogliamo, senza frenesia moderniste e senza nostalgie fuori tempo massimo. Perché al di là di ogni sofismo intellettuale e dei grandi discorsoni sul rapporto tra leader e masse una cosa la sappiamo con certezza: il popolo di centrodestra in questo paese è esistito prima del 94 ed esisterà ancora quando si chiuderà la straordinaria esperienza catalizzatrice di Silvio Berlusconi. Solo non vorremo che tutte le splendide ambizioni di quel popolo venissero soffocate da un partito che rischia di nascere con i peggiori difetti del centralismo democratico che a lungo abbiamo combattuto e combatteremo sempre. In nome del pluralismo, della democrazia, della competizione delle idee e, lo diciamo senza timore, della piena libertà di scegliere non soltanto un programma ed un partito ma anche i propri eletti e i propri rappresentanti locali.

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