Thatcher, sinonimo di leadership
Che Margaret Thatcher abbia salvato la Gran Bretagna da un declino certo, contribuito a cambiare le coordinate della politica britannica (e non solo), e – insieme a Ronald Reagan – a cambiare il mondo, non ci sono dubbi. Ma se è stata – ed è ancora oggi – fonte di ispirazione per intere generazioni di conservatori e liberali, è perché la Lady di ferro rappresenta un modello di leadership saldamente fondato sui principi, forse l’unico davvero vincente, e la dimostrazione tangibile che libertà e responsabilità non solopossonoessere le linee guida di un’azione di governo, masonola miglior politica economica e il miglior programma di governo possibile: «Non può esserci libertà senza libertà economica».
La sua è stata tra le rare leadership fondate sulle convinzioni contrapposte alle convenienze come bussola dell’agire politico. Un modello di leadership i cui pilastri sono moralità, fiducia nell’individuo, e soprattutto fermezza sui principi. Lo sapeva bene, una donna che per emergere ha dovuto combattere il maschilismo dei partiti e della società britannica, che i principi sono tutto ciò che distingue lo statista dal politicante. Sapeva che per avere successo bisogna lottare «ogni santo giorno della propria vita», andare controcorrente, sfidare il conformismo, la banalità e la mediocrità imperanti, senza piegarsi.
II thatcherismo, dunque, innanzitutto come modello di leadership e prassi di governo. No ai compromessi al ribasso per vivacchiare politicamente. No ai cedimenti alle lobby e ai gruppi di pressione. No al consociativismo sociale. No alle lusinghe della spesa facile. «La medicina è amara ma il paziente ne ha bisogno», «ci odieranno oggi ma ci ringrazieranno per generazioni», risponde la Thatcher ai suoi colleghi di partito e di governo che pensano solo alla rielezione.
Certo, è più facile prendere voti, e vincere le elezioni, devastando le finanze pubbliche piuttosto che risanandole; elargendo privilegi e sussidi piuttosto che responsabilizzando i cittadini, restituendo loro e alle famiglie il potere invece di aumentare a dismisura quello del governo. Ed è più facile rimandando sine die una soluzione impopolare piuttosto che affrontando di petto i problemi, ma tutto questo non sarebbe governare ed esercitare una leadership.
Come pochi altri leader del ‘900, la Lady di ferro ci ha insegnato che l’arte del governo non è solo carisma e tecnica. Per cambiare un paese non bastano politiche efficaci e politici onesti e competenti. Quanto maggiori sono le sfide pratiche da affrontare, tanto più ci vogliono visione morale (avere un’idea di ciò che è bene e ciò che è male), intelaiatura intellettuale e chiarezza ideologica, per realizzare ciò che si è promesso conquistando e mantenendo il sostegno dell’opinione pubblica (di una maggioranza di essa, ovviamente).
La “Thatcher Revolution” ha dimostrato per la prima volta che le politiche keynesiane non sono le uniche possibili in democrazia. Che le politiche cosiddette “liberiste”, la riduzione del peso dello Stato nell’economia a vantaggio della dimensione individuale, anche su quell’abusata astrattezza che chiamiamo «società» («non esiste la società: ci sono gli individui, uomini e donne, e ci sono le famiglie»), non solo sono convenienti dal punto di vista economico, ma sono anche politicamente e socialmente sostenibili, nonché in ultima analisi vincenti, anche se indubbiamente richiedono un surplus di coraggio e determinazione. Di leadership, insomma.
A salvare la Gran Bretagna non sono state distanti teorie economiche, né oscure formule tecnocratiche, ma è stato il buon senso della figlia di un droghiere. Il bilancio dello Stato come il bilancio di una famiglia: il risparmio, non la spesa, è la virtù. Il duro lavoro, non lo sciopero, è un valore, mentre l’assistenzialismo è immorale ed economicamente insostenibile. Il ritratto stesso della figlia di un droghiere di provincia che contro tutti i pregiudizi e gli stereotipi diventa primo ministro ne fa un’icona positiva del liberalismo e dell’individualismo.
La situazione italiana è molto simile a quella del Regno Unito pre-Thatcher della fine degli anni ’70. Da noi è ancora dominante l’ideologia dello Stato-padrone e del cittadino-suddito, della spesa pubblica, del posto fisso, del “godersi” la pensione a 50anni, dell’inflazione per far fronte al debito. Una società che colpevolizza la ricchezza e il merito, che ostacola l’accumulo del capitale, che frustra gli sforzi individuali per arrivare alla propria affermazione, che ignora le regole basilari dell’economia e che, per tutti questi motivi, è destinata al declino. Nessun centrodestra, soprattutto in Italia, può pensare di non ripartire dalla lezione di Margaret Thatcher.