La diplomazia del basket
Le vuvuzela producono un rumore assordante. È la partita del debutto per Brasile e Corea del Nord. Gli inni nazionali fanno da cornice ad uno stadio stracolmo. La telecamera scorre i visi degli atleti uno per uno: prima i brasiliani, poi tocca ai nord coreani. Occhi lucidi, mani che coprono il viso e lacrime di gioia sono le reazioni a quarant’anni di assenza dai mondiali di calcio. Il numero dieci Hong Yong-Jo è il capitano. Il migliore dei suoi, quello che parlando di Lionel Messi disse: “Non sa chi sono io”. Piange anche lui e contempla a testa alta quest’attimo di libertà. Stadio di Johannesburg, Sud Africa.
Dennis Rodman è l’uomo dai mille volti. Star dei B movies e dei reality americani. Il primo a tingersi i capelli di verde fosforescente nell’Mba (erano gli anni ’90), l’unica stella del basket Usa a vestire i panni del wrestler (fece parte degli nWo con Hulk Hogan) e ad avere una storia con la cantante Madonna. Vincitore di cinque campionati e per sette volte consecutive della classifica dei rimbalzi, autore di racconti per ragazzi con problemi di alcol e con una causa legale in corso per essersi rifiutato di pagare gli alimenti alla sua terza moglie e ai suoi bambini. Arriva in Nord Corea con un documentario da girare per la Hbo insieme a tre membri degli Harlem Globetrotters. Ma senza rendersene conto diventa il simbolo mascherato delle relazioni tra Pyongyang e l’occidente. Il giocatore arriva appena due settimane dopo l’ultimo test nucleare sotterraneo condannato dalle Nazioni Unite e la sua visita è stata già ribattezzata la diplomazia del basket. Il suo aereo atterra lunedì e per diversi giorni risiede nella capitale.
A parte la passione per lo sport, il fantasista e l’ala dei Chicago Bulls hanno poco in comune. La Corea del Nord ha poco a che fare con gli Stati Uniti, ma Kim Jong-un, il giovane leader coreano, è un fan della pallacanestro. E accoglie Rodman con tutti gli onori. I due guardano insieme una partita, mangiando sushi e bevendo coca cola lontani dalle telecamere. Finisce 110 a 110. Un magico pareggio, anche se si tratta di basket. Alla fine del match Rodman prende il microfono e nel suo discorso afferma che sarà per sempre amico del dittatore. E in un mondo che in larga parte saluta con il sorriso la ritirata strategica americana dagli scenari internazionali, il potere soft della sua cultura non rivela limiti tangibili. Kim Jong-un è stregato dal campione statunitense, invita lui, i giocatori dei Globetrotters e la troupe a una festa organizzata in loro onore. Ecco la vera forza dell’America.
La pensa così un altro personaggio, meno popolare. Si chiama Jung Kwang e non condivide nulla con gli altri. È un uomo normale che ha vissuto per anni lontano dai riflettori. È fuggito dalla Corea del Nord nel 2004, dopo aver trascorso tre anni nel gulag Yoduk. Il sistema dei gulag è una realtà che ancora oggi raccoglie migliaia di dissidenti in tutto il paese. Solo poche decine di ex prigionieri sono riusciti a fuggire ed è solo grazie ai loro resoconti che conosciamo qualcosa su questi campi da lavoro. Jung è un commerciante. Vende il pesce ai cinesi per trecento dollari a tonnellata. Quando scopre che Pechino offre quella merce a un prezzo sei volte maggiore alla Corea del Sud, prende accordi diretti con Seul e continua il suo business per novecento dollari la tonnellata. Il guadagno è netto, ma viene scoperto, arrestato per “spionaggio”, torturato e gettato in una cella. Ora vive in Corea del Sud e viaggia raccontando al mondo la verità sulla dittatura comunista nel nord della penisola. Forse il vero protagonista di questa storia è proprio lui.