Zero Dark Thirty simulation
Lo spionaggio in tv è un’altra cosa. Non se ne voglia Kathryn Bigelow, ma il suo ultimo lavoro, “Zero Dark Thirty“, rischia di inserirsi in quel filone di spy movie hollywoodiani che ben poco hanno a che fare con le reali tecniche di controllo adottate dai servizi di intelligence di tutto il mondo. Sembrerebbe una banalità, i film sono film posso affermare i più a ragione, tuttavia l’esempio della pellicola della Bigelow non viene citato a caso. I film sono film, ma non vanno spacciati, per il gusto dell’incasso corposo, per fedeli documentari.
Il suo è uno dei più attesi del 2013, già candidato ai Golden Globe. Il terrorismo islamico è al centro, anzi un uomo. Osama Bin Laden e la sua eliminazione. La più grande caccia della storia entrerà nei nostri cinema il prossimo 7 febbraio. Per un intero decennio, un team selezionato lavora in gran segreto all’operazione di sicurezza militare che tocca i quattro angoli della terra. La Cia è sulle tracce di Bin Laden dal 2001 e forse anche da prima. Da prendere vivo o morto. Studiano le sue mosse, provano ad anticiparlo. Protagonista della storia è una donna, Maya, il perno e la mente della ricerca. Intuizioni e colpi di genio sono gli ingredienti essenziali dell’operazione. Burocrazia e ottusità sono, al contrario, i migliori alleati dello sceicco del terrore.
Se ne è parlato come di un film politicamente scorretto, un’esaltazione della tortura. Le scene particolarmente cruente hanno spaccato stampa e opinione pubblica americana, caricando di incognite alcuni punti chiave della politica estera di Barack Obama. Si vocifera che la regista abbia avuto a disposizioni documenti e rapporti segretati grazie a una richiesta inoltrata dal presidente americano in persona, ma non è in alcun modo verificabile se le tecniche utilizzate per la cattura riproducano fedelmente quelle applicate dalle forze di sicurezza statunitensi. Ecco dove fiction e realtà si incrociano. Dire che si è sponsorizzati dalla Casa Bianca non basta.
Spacciare l’ultima fatica della Bigelow come un film-documentario può aprire la strada a critiche e dubbi sulla veridicità dei fatti ritratti. Dopo “The Hurt locker“, vincitore di sei Oscar nel 2010, l’unica regista donna ad aver vinto la statuetta e lo sceneggiatore Mark Boal si uniscono nuovamente e tornano a far discutere. Se in “The Hurt locker” si rinfacciava il furto e la riproduzione senza alcun diritto della vita di un vero artificiere dell’esercito americano di stanza in Iraq, qui ci si interroga su quanto possa convincere la scelta di accreditare la pellicola come uno spot sulle indagini che hanno condotto alla cattura di Bin Laden.
C’entra la bella figura di un politico più che l’interesse nazionale. L’autorizzazione dell’amministrazione Obama arriva infatti durante la campagna elettorale di quest’anno. Doveva essere la celebrazione di un momento epico per la presidenza, la grande conquista per un’America che cerca di rialzarsi dal terrore. Il trionfo democratico però gioca di sponda con le pratiche di tortura che sbugiardano i vari slogan dello stesso presidente, le sue prese di distanza dalla precedente politica repubblicana. Potere a parte, si spera che la Bigelow abbia resistito alle immagini e alle tecniche fantascientifiche (software futuristi, telefoni cellulari che permettono di guidare automobili, satelliti utilizzati per seguire solo una persona 24 ore su 24 e altre pratiche impossibili da adottare nella realtà ).
Queste sono modalità di indagine lanciate sul mercato cinematografico da film come “Missione impossibile” di Brian De Palma, il primo della serie per capirci, o il buon vecchio James Bond. Ciò che resta ancorato alla cronaca è una precisa località di confine tra Pakistan e Afghanistan, Abbottabad, una squadra dei Navy Seal e una missione ben riuscita. Se non fosse così il film rischierebbe di scontentare tutti. Va di sicuro visto. Per una volta, senza effetti speciali.