Fusionisti on the road
Applausi a scena aperta, qualcuno si alza in piedi, gli altri lo seguono. Ancora una standing ovation. La sala è molto più piccola del solito, poche decine di persone convocate all’ultimo minuto ed accorse una domenica sera per sentire un italiano che parla della riforma del sistema educativo americano. Più ci penso, più mi sembra incredibile. Chino la testa sorridendo sotto i baffi che non ho e torno al mio posto. Niente palco stavolta, niente podio né riflettori né telecamere professionali. In fondo, va bene anche così.
Siamo nel retro di un barbecue joint a Mesquite, East Dallas. I Tea Parties sono nati in posti come questo, in riunioni altrettanto estemporanee e vibranti. Il cuore pulsante della destra statunitense è ancora qui, in piedi, pronto a combattere le prossime battaglie. Sono passati più di cinque anni e la variopinta galassia dei Tea Parties non ne vuole sapere di mollare. Quando gli ricordo i tanti articoli che annunciavano la loro dipartita, i volontari si mettono a ridere. Età media sempre più avanzata, gli arzilli combattenti per la libertà sono ancora pugnaci. Non ovunque le cose stanno così. In Alabama, ad esempio, spesso gli organizzatori degli eventi erano giovani madri preoccupate del futuro dei propri figli. Per loro la battaglia è personale e sembrano disposte a tutto. Visto il muro di gomma delle istituzioni, feudi pluridecennali del GOP, il movimento dei Tea Parties è l’unico disposto ad aiutarle in questa difficile battaglia contro la potente e molto ben finanziata alleanza pro Common Core.
Con l’intervento di ieri sera si chiudono queste due settimane tumultuose, faticose ma davvero straordinarie. Migliaia e migliaia di chilometri sulle anonime interstate, sulle stradine che portano ad idilliche cittadine nel mezzo del niente, tra aeroporti affollati e palazzi del potere. Dalla Florida all’Alabama, dalla Georgia fino alla locomotiva dell’Unione, quel Texas molto meno monolitico di quanto si pensi, un viaggio davvero straordinario in quella che i liberal radical chic definiscono sprezzantemente “flyover country”. Poveri stolti, non sanno che si perdono.
Riassumere in poche righe i mille incontri, le tante sorprese, la incredibile disponibilità di tantissimi volontari, la passione e la preparazione dei compagni di viaggio, le sale piccole e grandi, le chiese, le stanze d’albergo, le case linde e piene di bandiere dei veterani che ci hanno talvolta ospitato è francamente impossibile. Ce ne sarebbe da riempire un libro, che probabilmente non vedrà mai la luce. Già, perché mentre sono qui ad aspettare che l’amico Scott torni a casa e mi porti all’aeroporto di Dallas-Fort Worth, si sta parlando un nuovo tour, forse subito dopo le mid-term di novembre. Le richieste non mancano, il tema è di quelli caldissimi e la mobilitazione dei genitori sembra crescere di giorno in giorno.
Guardandosi indietro, il tutto sembra ancora più assurdo. Invece di andare in vacanza, mi sono auto-imposto un massacrante tour di 12 città in 15 giorni, pagando il biglietto di tasca mia per offrire un messaggio certo non rassicurante o positivo. Se non volete fare la fine dell’Europa ormai priva di identità ed in balia di questa o quella moda progressista, alzatevi in piedi e combattete chi vuol trasformare la “shining city on a hill” nell’ennesimo incubo collettivista.
Non sono certo il primo o l’ultimo europeo a sbarcare qui con le sue profezie di sventura. Il pubblico, stavolta, sembra più ricettivo, forse perché le mie parole non fanno che fornire urgenza ad un sentimento comune. Conservatori e libertari oltreoceano non possono far altro che assistere sbigottiti all’opera sistematica di demolizione del proprio paese, portata avanti da chi, democratico o repubblicano, sembra pronto a sacrificare l’Ideale fattosi Nazione per guadagno personale o pura sete di potere.
La pazienza nei confronti di chi all’interno del Partito Repubblicano cerchi soluzioni centriste all’insegna del “compassionate conservatism” e del tax-and-spend è ormai finita. I maestri del business as usual trovano sempre più difficile giustificare le proprie posizioni nei confronti di quella ampia fascia di elettorato che pretende posizioni nette e pochi compromessi.
Lo scontro è già in atto e molti nell’universo grassroots non nascondono il proprio disprezzo per l’establishment del partito, peraltro abbondantemente ricambiato. Per il momento chi chiama alla secessione è minoritario, ma molti sono “on the fence” ed attendono i risultati dei battleground states alle mid-term. Se i risultati non dovessero essere quelli promessi, la rottura sarà probabilmente inevitabile.
I problemi non mancheranno di sicuro, specialmente quando si tratterà di trovare un accordo con i due third parties già esistenti, il Libertarian e il Constitutional Party. La nuova “big tent” non sarà certo meno litigiosa di quella esistente: un brillante e promettente dirigente del GOP in Alabama, che sta facendo miracoli nel ricostruire i rapporti con le minoranze, mi ha detto senza esitare che, per lui, i libertari sono quasi peggiori dei liberals.
Altre soluzioni, però, non ce ne sono. L’apparato consolidato attorno ai nomi storici del partito, con le loro fondazioni, i PAC ben finanziati dalle industrie amiche e le associazioni culturali di supporto, continua a pensare che libertari e costituzionalisti (il 99% della galassia teapartygiana) siano troppo incontrollabili, umorali ed imprevedibili nelle loro battaglie per essere partner affidabili alla guida di un paese complicato come gli Stati Uniti.
Il “friendly fire” nei confronti dei candidati portati al successo da evangelici e Tea Parties è ormai un fatto evidente a tutti. I Democratici, ovviamente, si guardano bene dall’intervenire, pregustando facili vittorie prima del vero obiettivo importante, la staffetta alla Casa Bianca tra il sempre più deludente Obama e la certo non entusiasmante Hillary. Poco importa, quello che conta è mantenere il controllo sulle leve del potere e continuare imperterriti l’opera di normalizzazione dell’anomalia USA.
Nessuno sa veramente come andrà a finire questo scontro epocale, questa guerra per l’anima degli Stati Uniti. Da una parte i soliti “prenditori” di stato, popolari in America quanto in Europa, versano somme ingentissime per sostenere i propri protetti e l’esercito di “paid operatives” che non dorme mai. Dall’altra la galassia grassroots si ingegna a trovare soluzioni tecnologiche per aumentare l’impatto sulle prossime elezioni e sfruttare al meglio la disponibilità dei volontari. Un panorama fluidissimo, sicuramente ricco di sorprese, con la situazione internazionale pronta a scompaginare di botto le carte. I prossimi mesi saranno sicuramente cruciali per il futuro dell’ultima superpotenza rimasta e gli equilibri geopolitici mondiali.
Ve li racconteremo qui su Right Nation, magari in maniera meno sconclusionata. Per ora, arrivederci America. It has been emotional.