Il peccato mortale del “Re filosofo”
Fino a qualche settimana fa lo chiamavano il “Re filosofo della Silicon Valley”. Oggi è travolto dagli insulti delle bande di social justice warriors che imperversano su Twitter e su buona parte dei social media. La sua “colpa”? Quella di aver osato scrivere, sul proprio sito personale, un lungo saggio in cui sostiene che la diseguaglianza economica non è un male “in sé”, ma solo la conseguenza – probabilmente inevitabile (almeno senza ricorrere agli strumenti di una dittatura) – dello sviluppo tecnologico e della natura umana.
Comunque la si pensi, sembra davvero difficile restare indifferenti nei confronti di Paul Graham, della sua storia e delle sue idee. Nato come programmatore, laureato in computer science ad Harvard e studente di pittura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, Graham affianca quasi subito – alla passione per la programmazione, l’arte e la scrittura – anche uno spiccato senso imprenditoriale.
Nel 1995, insieme a Robert Morris, fonda Viaweb, una delle prime compagnie che prova ad immaginare il software come un servizio, piuttosto che un prodotto da vendere sugli scaffali di un negozio specializzato. E quando nel 1998 Viaweb viene acquistata da Yahoo (dove diventerà Yahoo Store) per la cifra di 50 milioni di dollari, Graham decide di investire la propria fortuna investendo nelle start-up più promettenti della Silicon Valley. La cosa funziona: nel 2005, insieme a Morris, Jessica Livingston (oggi sua moglie) e Trevor Blackwell, fonda “Y Combinator”, un incubatore che in dieci anni ha già finanziato più di 800 aziende nate da zero, tra cui Dropbox, Airbnb, Stripe e Reddit.
Graham resta comunque una figura conosciuta (e riverita) soprattutto tra gli addetti ai lavori della Silicon Valley. Almeno fino al 2 gennaio di quest’anno, quando ha la pessima idea di pubblicare sul proprio sito (www.paulgraham.com) un saggio dal titolo apparentemente innocuo: “Economic Inequality” (“Diseguaglianza economica)”. La diseguaglianza economica – sostiene Graham, in netta controtendenza rispetto alla vulgata progressista che domina il mondo intellettuale statunitense (e non solo) – non è un male in sé, perché le sue radici possono essere diverse: alcune buone e alcune cattive. Può essere causata dall’evasione fiscale, per esempio, o dalla mancanza di opportunità economiche per alcuni segmenti della popolazione. E questo è male. Ma può anche essere causata dalla moltiplicazione delle start-up di successo, che creano ricchezza senza sottrarla a nessun altro. E questo è bene.
Se ci sta a cuore il problema della povertà, scrive Graham nel suo saggio, «proviamo a combatterla, non esitando se necessario a danneggiare la ricchezza; è molto meno sensato, invece, combattere la ricchezza sperando in qualche modo di risolvere il problema della povertà».
L’errore logico centrale dei fautori della “giustizia sociale ad ogni costo” è rappresentato, secondo Graham, da quella che lui definisce “pie fallacy” (si potrebbe tradurre in qualcosa di simile a “l’errata credenza della torta”). Si tratta della convinzione che l’unico modo per arricchirsi sia quello di sottrarre risorse a chi ne ha di meno, che l’unico modo per mangiare più fette di torta sia quello di sottrarre fette di torta a qualcun altro.
Ma la ricchezza di una società non è un gioco a somma zero. E in un mercato libero molti diventano ricchi senza “rubare” ai poveri. Anzi, diventano ricchi creando ricchezza. E il progresso tecnologico degli ultimi decenni ha moltiplicato e accelerato questa dinamica.
«Negli anni Sessanta, quando la diseguaglianza economica era più bassa – spiega Graham – quello che oggi sarebbe un potenziale creatore di una start-up aveva solo due strade davanti a sé: farsi assumere da una grande azienda o insegnare in un’università. La vera ragione per cui Mark Zuckerberg, insieme ad altri fondatori di start-up, è finito per diventare molto più ricco di quanto non sarebbe potuto esserlo verso la metà dello scorso secolo, non è per qualche oscura macchinazione pianificata durante l’Amministrazione Reagan, ma perché il progresso tecnologico ha reso molto più semplice creare nuove aziende in grado di crescere rapidamente».
O si mette fuorilegge la tecnologia, contemporaneamente fissando dei limiti invalicabili alla produzione di ricchezza, oppure bisogna rassegnarsi a fare i conti con una diseguaglianza economica crescente.
«Io credo – conclude Graham – che la crescente diseguaglianza economica sia il destino inevitabile di nazioni che hanno scelto di non diventare qualcosa di nettamente peggiore. E quanto ascolto le persone parlare di quanto la disuguaglianza economica sia un fatto negativo e di come si dovrebbe cercare di ridurla, mi sento come un animale selvatico che sta origliando una conversazione tra cacciatori. (…) Ma su questo punto bisogna essere perfettamente chiari. Eliminare le grandi variazioni di ricchezza significa eliminare del tutto la possibilità che nascano nuove start-up. Siete sicuri, cacciatori, di voler davvero sparare a questo strano animale?». Su Twitter – ma anche sulle riviste apparentemente rispettabili della sinistra americana (proprio quelle finanziate dai miliardari della Silicon Valley) – il dubbio sollevato da Graham non ha fatto troppi proseliti. E il plotone d’esecuzione ha cominciato, senza pietà, a sparare.
© “Il Giornale” del 13 gennaio 2016
Non so se la tecnologia abbia aumentato i ricchi e le diseguaglianze, ma sicuramente ha ridotto enormemente la povertà in tutto il mondo.