Dubliner

La metà friulana di questo blog si è trasferita per qualche giorno a Dublino. Vacanza di puro piacere, niente di serio, ma spunto comunque buono per lasciarvi alcune impressioni della capitale irlandese.

Come tutti gli arrivi che si rispettino (da Roma a Washington), la prima impressione è quella che ti danno un taxi e il suo conducente. Questo è letteralmente spettacolare: macchina gigantesca, lunga abbastanza per stendersi in completo relax mentre un uomo che avresti definito un irlandese anche senza saperlo, inizia a raccontare cosa vedere, dove, quando. Alla fine ci segniamo i 4-5 pub che ci ha consigliato e rimaniamo (io soprattutto) estasiati dal “God bless you” finale che fa molto Alabama.

L’hotel è l’Harding Hotel, vicinissimo a Temple Bar, quartiere dove sono ospitati i migliori pub dublinesi. La camera è molto grande, c’è tutto: wifi, bollitore per caffè, asse e ferro da stiro. E’ incredibilmente pulita ma sconta alcune tipicità tutte anglosassoni: bagno spoglio, due rubinetti nel lavandino (uno con acqua freddissima, l’altro con acqua caldissima) e moquette riprovevole. Ma servirà solo come base d’appoggio.

Usciamo dall’albergo e ci dirigiamo verso la zona dei locali. Pronti,via e incocciamo in una vetrina con cinque ragazzi dentro che suonano. Chiediamo lumi e ci spiegano che trattasi di “live performance” per una radio che si sente al 90.3, gemellata con Radio Popolare di Milano e il cui direttore assicura di voler conoscere Berlusconi per “expand my media and change my hair style”.

La prima tappa è l’Oliver St. John Gogarty’s Pub su Fleet Street. ll locale è interamente dedicato a John Gogarty, poeta e intellettuale irlandese, diventato famoso per aver ispirato il personaggio di Buck Mulligan nell’Ulysses di James Joyce. E’ un posto da stream of consciousness, effettivamente. E il signore appoggiato al bancone davanti a noi dà tutta l’impressione di essere assorto in pensieri profondissimi: Irish Times sotto braccio, pinta di Guinness e sguardo perso verso il teleschermo che trasmette la tappa del Tour de France. Ma la testa, è evidente, è altrove. Io prendo un panino con filetto arrosto e una pinta di Guinness: tutto buonissimo, anche perché accompagnato da un duo che canta unplugged musica  irlandese e da un gruppo di ragazzi che giocano rumorosamente a carte. Sembra una scena di The Dubliners, ma qui tutto, onestamente, pare scritto da Joyce.

La seconda tappa del nostro viaggio coincide con la merenda e optiamo per Cake Cafe, locale fuori dal centro pedonale, in zona periferica e costruito all’interno di una corte introvabile. Luogo surreale: ordiniamo due caffè e due torte che ci arrivano in ordine sparso. Due tazze diverse, due piattini diversi, posate diverse. E l’elogio della diversità e gli riesce parecchio bene: il clima è splendido, rilassato e da pensatoio vecchia maniera. Le torte sono ancora meglio. Assaggiamo un mega brownie al cioccolato e una torta allo zenzero, entrambi sublimi. La differenza, come detto, la fa il contesto: un giradino molto irish con biciclette ovunque, libri all’aperto e tavolini con tovaglie cerate color pastello. Dentro siamo oltre il concetto di “cucina a vista”. Sembra proprio di entrare a casa di qualcuno, disordine compreso. Ordini mentre loro stanno impastando il pane o sbattendo le uova e davanti a te c’è già il risultato di tanto lavoro: pagnotte fatte in casa che paiono disegnate e marmellate di ogni tipo con le etichette scritte a mano. Un angolo di Dublino lontano dalle direttrici dello shopping e del turismo ma certamente vicino , vicinissimo, all’idea più pura ed essenziale di Irlanda. (1/continua)

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