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Sui Pacs ci giochiamo la nostra faccia di liberali
Non apprezzo le polemiche fine a sè stesse, così come non apprezzo i sondaggi “si o no” stile Passaparola. Però c’è da dire che il cross post di Daw e Andrea un merito lo ha avuto: riaccendere il dibattito. Con esso le polemiche, ovviamente. Ma questo poco importa. E’ giusto parlarne. Partiamo subito da un punto: io sono cattolico (credente e praticante) e sono contro i matrimoni gay, se per matrimoni gay si intende la via zapateriana al riconoscimento della coppia omossessuale. Non sarebbe possibile, in Italia, risolvere il problema solo modificando il Codice Civile negli articoli in cui regola il Diritto di Famiglia. Non sarebbe nemmeno costituzionalmente corretto. All’art. 29 la nostra Costituzione recita:
La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
E il successivo art.30 dice:
È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.
E’ evidente che il combinato disposto dei due articoli fa emergere chiaramente qual è il concetto di famiglia su cui si fonda la società italiana. Su questo non c’è il minimo dubbio. Ma qui il problema non è trovare una sistemazione giuridica adatta a “tutelare” gli omossessuali (tutelare è tra virgolette perchè non mi sembra il caso di trattare i gay come una specie in via di estinzione e non mi pare corretto nemmeno trattarli come una specie a sè stante rispetto al resto del genere umano). Il problema è capire, ancora una volta , in che stato scegliamo di vivere. Le norme che,attualmente, regolano l’eredità e il testamento riservano ai coniugi e ai figli una quota di legittima intangibile. Se due persone dello stesso sesso condividessero una casa comune, creassero un prototipo di unione avvicinabile alla comunione coniugale (almeno per quanto riguarda gli aspetti economici e patrimoniali) si troverebbero del tutto sprovvisti di tutela. Ciò non accadrebbe per il mancato intervento dello Stato, ma per una sua troppo puntuale “invasione”. Qui sta il punto della vicenda. Chi chiede i Pacs per le coppie omossessuali non chiede allo Stato di istituzionalizzare un comportamento, di metterlo sotto tutela e di proteggerlo. Chiede allo Stato di farsi da parte, di lasciare che i soggetti decidano per sè e che non siano norme create per altre fattispecie a farlo. E’ qui il “quid iuris” della vicenda, è qui che un liberale si gioca la faccia. Perchè da liberale non posso tollerare che un atto negoziale (tra vivi o mortis causa) venga impedito in nome di valori che con la liberalità delle persone hanno poco a che fare. Un uomo e una donna che vogliano stare insieme hanno lo strumento contrattuale del matrimonio (regolato minuziosamente dal codice) ed, eventualmente, quello del regime di “divisione dei beni” in alternativa alla “comunione dei beni”. Per i coniugi l’istituzione dei PACS rappresenterebbe un’opzione in più, una forma intermedia tra la semplice convivenza e il rapporto coniugale. Una scappatoia, forse, da molti obblighi e da molti doveri. Per gli omossessuali no. Per loro l’istituzione di un contratto che regoli civilmente la loro unione non è solo una conquista che attesterebbe il progresso del nostro paese; è qualcosa di più. E’ la conferma che i diritti appartengono alle persone e che lo Stato non può comprimerli. Per questo sulla questione dei PACS ci giochiamo il nostro ideale di Stato, per questo dobbiamo discuterne, per questo dobbiamo mobilitarci.